I Racconti della Bussola è un progetto che dà esperienza a editor e scrittori.

Sangue freddo
di Manuela Fucci
editing di Martina Valenti
Venerdì, ore 20:06
Il cartello sbatteva sul palo della luce ogni volta che un’auto passava per quella strada.
Sbam! Sbam! Quel rumore assordante non lasciava presagire nulla di buono. Prima o poi, avrebbe aperto in due la testa di un passante come una tagliola, oppure si sarebbe rovesciato su di un parabrezza. In ogni caso, ci sarebbe stato un morto.
A settembre qualcuno morì, ma non fu per quel cartello.
Nel paese, percorrendo un labirinto di traverse, si arrivava in un viale sterrato dove c’era un’abitazione. Due ulivi centenari troneggiavano ai lati del cancello come imponenti faraglioni oltre i quali si intravedeva la villetta che, subito dopo il tramonto, rimaneva illuminata all’esterno anche di notte. La piscina gonfiabile era stata coperta da poco.
Sul lato opposto della casa, una coppia di mezza età era seduta nella sala da pranzo intorno a un tavolo di ciliegio, sulle loro teste pendeva un lampadario in ferro battuto a sei bracci. A inizio settembre, le giornate erano più corte e il vento portava con sé l’odore dell’autunno.
Quella sera, un ragazzo camminava sul ciglio della strada rasente al marciapiede, lanciando di tanto in tanto occhiate di sbieco e fermandosi quando udiva dai vicoli rumori sospetti. Arrivato all’altezza di una pensilina, il bianco pallido della lampada rischiarò a giorno il suo viso latteo e spigoloso, gli occhi verdi e le pupille piccole e pulite. Superata la villetta, il buio ripiombò sul suo corpo; proseguì dritto mentre intonava un motivetto a bocca chiusa per farsi compagnia. Chiunque, lungo quella strada principale, sarebbe salito sul marciapiede, ma lui conosceva a menadito ogni tombino, le lastre di pietra mancanti, le curve pericolose e il punto preciso in cui avrebbe dovuto salirci per non essere falciato da un’auto.
Indossava un paio di jeans scuri, del tipo denim. Un ciuffo di capelli penzolava davanti al naso e gli solleticava la pelle; ogni tanto lo sollevava con le dita, poi sistemava le mani in tasca, fischiettando per farsi compagnia.
Sulla vetrina di un bar, oltre ai contorni della propria immagine riflessa, vide un volantino. Vi erano scritte poche parole in grassetto, quattro righe sotto la foto di un’adolescente che lo guardava muta. La città era invasa da pezzi di carta come quello, e tutti dicevano la stessa cosa. Gli abitanti del paese si sentivano meno sicuri da quando erano comparsi quei fogli.
Alle spalle del ragazzo, un’auto percorse a velocità sostenuta la strada principale, facendo lampeggiare alle sue spalle una luce accecante. Si abbassò per allacciare la scarpa sinistra e i fari gli illuminarono la schiena ricurva.
La donna nella villetta si alzò di continuo durante l’intera cena, facendo la spola tra la cucina e il tavolo dove stava cenando con il marito.
Squilli improvvisi la fecero sobbalzare. Si alzò dalla tavola e si diresse verso il cordless. Ogni volta che il telefono suonava, il cuore saltava e ricadeva nel petto. Si portò una mano sul viso struccato e stanco, guardò fuori nel giardino vuoto, poi rispose.
«Pronto» la prima parola irruppe nel microfono, «chi parla?»
Dall’altra parte, una voce femminile rovesciò una serie di frasi che si alternarono a toni alti e bassi. Mentre ascoltava, la donna rimase in piedi con la mano che scivolava sulla gola e poi nella tasca del grembiule.
«Ciao, Annamaria, non è qui. Non è ancora tornato, appena lo vedo glielo chiedo.»
La voce riprese a parlare, sembrava potersi spezzare da un momento all’altro.
«Sì, stai tranquilla. Ti chiamo dopo, okay?»
L’altra rispose a monosillabi; un “grazie” concluse la conversazione.
La donna appoggiò il telefono sulla base come se stesse mettendo giù un sasso. Coprì il viso con entrambe le mani e prese a strofinare fino a farlo diventare viola. Alla fine, sospirò.
Avvertì dentro di sé una strana sensazione all’altezza dello stomaco. La loro figlia più piccola era già al sicuro nella sua stanza, chiacchierava con le bambole intorno a un tavolino rosa di Ikea; poteva essere lei quella tredicenne che tutti conoscevano, poteva essere lei la prescelta. La donna inorridì al solo pensiero e ripeté a se stessa che era un cattivo presagio rimuginare su quelle cose, come se, a furia di farlo, uno se le tirasse addosso. Forse dipendeva dalle ombre della montagna: quando si allungavano sui tetti, sembravano le dita di una mano pronta ad afferrare ogni cosa o, forse, era per colpa di quella notizia rimbalzata per mesi alla radio e nelle tv:
Ragazzina di tredici anni scomparsa ritrovata morta nel canale, oltre la zona abitata; un cane da caccia ne ha localizzato il corpo dopo le infruttuose ricerche durate per settimane. Al momento, sono diverse le ipotesi al vaglio: non è chiaro se il responsabile sia uno sconosciuto oppure qualcuno che conosceva la vittima. Chiunque sia a conoscenza anche di un particolare apparentemente irrilevante si metta in contatto con la Polizia e i Carabinieri.
Quella foto ricordava alla gente che l’orrore si era annidato tra loro. In un primo momento, qualcuno aveva urlato al pirata della strada, altri si erano immaginati una caduta in un burrone che le era stata fatale; i genitori della ragazza, invece, avevano sperato in una bravata da adolescente. Durante le ricerche, nelle sue omelie, il parroco aveva a lungo rassicurato i fedeli stretti nelle panche e la famiglia Bracco, colpita da quella sciagura: la cosa si sarebbe risolta presto e con grande successo, occorreva avere fede in Dio, perché Lui avrebbe guidato la ragazza fino a casa, dai suoi genitori. Descriveva un lieto fine al quale, forse, dopo due settimane di ricerca, non credeva più. Ma, questa volta, non c’era stato.
Quella notizia di morte che aveva attraversato come la peste le vie del paese sembrava essersi piazzata proprio in casa loro.
Qualcuno l’aveva fatto: adescare una ragazzina e ucciderla è atroce, ma ancor di più è pensare di lasciare il suo corpo in un canale, esposto alla natura, agli animali, al buio della notte. Di colpo, tutti sapevano che era possibile vedere la morte sul ciglio della strada, una mattina qualunque, alle prime ore dell’alba.
Nel frattempo, suo figlio Paolo non era ancora tornato; eppure, doveva solo incontrarsi con dei compagni di classe e scambiarsi della “roba di scuola”, così le aveva detto mentre si avviava di spalle verso la porta. O, forse, lei non aveva compreso bene. Sarebbe stato meglio farlo rimanere in casa: lì fuori non era un posto sicuro.
Lavò la prima batteria di piatti riempiendo il lavello fino ai polsi ossuti. Doveva finire di sparecchiare, ma il marito era ancora al secondo. Dio, quanto la snervava quel suo modo metodico di martoriare il cibo, spostandolo con il coltello, prima da un lato e poi dall’altro. Tornò con la mente a Paolo. Usciva spesso e, a volte, durante il giorno, si rinchiudeva nella casetta prefabbricata sul retro del giardino, in compagnia dei libri. Raramente invitava qualcuno a casa. Realizzò che anche suo figlio non veniva quasi mai invitato dagli altri. Attribuì quella stranezza al fatto che i ragazzi preferissero vedersi in strada. Quella del prefabbricato era stata un’idea del marito, sembrava più una sorta di bunker, perché tale era secondo la donna, ma inutile mettersi a discutere con l’uomo seduto dall’altra parte del tavolo, non ci si cavava uno spillo da un fienile quando si metteva in testa una cosa.
Fece scorrere l’acqua sporca, chiuse il miscelatore e si asciugò le mani. Controvoglia, tornò nella sala da pranzo, il marito si stava pulendo le labbra con il tovagliolo, dopo un sorso di vino rosso.
«Era Annamaria, al telefono.» Lui non l’aveva sentito squillare. «Mi ha chiesto se sapessi dov’è Francesca, non è ancora tornata a casa.» L’uomo aveva capito dove la moglie volesse andare a parare. «Il cellulare squilla ma non risponde, ho provato a chiamare Paolo e…»
«I ragazzi non rispondono mai, non è una novità.»
«Anche Paolo dovrebbe già essere qui.» Eccola, la madre apprensiva.
«Stai tranquilla, tra poco lo vedremo entrare dalla porta.»
«Forse sarebbe meglio mandarlo per gli ultimi giorni di vacanza da mia sorella, in città, finché la scuola non riprende.» Il tono sembrò più una preghiera.
L’uomo poggiò il tovagliolo sulle ginocchia e arricciò le labbra. «Ci avevo pensato anche io, ma non credo gli farebbe granché bene.» Alzò le spalle. «Tua sorella è strana.»
La donna si mise seduta, faceva roteare il bicchiere formando dei cerchi immaginari.
«In che senso?»
«Una che allunga le caramelle al panettiere ogni volta che le regala una fetta di pane per le polpette come la definiresti?» La guardò con le sopracciglia sollevate, mentre lei allontanava il busto dalla tavola, come disgustata.
«Una persona gentile, tutto qui!» Il tono era seccato.
«A me sembra strana, ripeto, e ancora più strampalato mi sembra il tizio che dall’altra parte del bancone si mette le caramelle in tasca. Bah!»
«Non sono tutti anaffettivi come te!» concluse, gelida.
Il marito fece di nuovo spallucce, borbottò parole tra gola e denti e si rimise a tagliare il secondo.
Improvvisamente, si sentirono passi che a tratti finivano nell’erba e poi sul selciato.
«Visto? Vedrai che anche Francesca è tornata a casa» le rimproverò quasi.
La donna sollevò il viso, fece il segno della croce in mente.
La porta si aprì: al ragazzo erano state date le chiavi quando aveva compiuto dodici anni e così entrava e usciva quasi a suo piacimento. Anche quella era una scelta pensata per non stargli addosso, una decisione presa dal marito.
La porta si richiuse, i passi si fermarono.
«Sei tu?» La donna lasciò scivolare le parole nel vuoto della casa sotto gli occhi allucinati del marito che scosse la testa, come a dire “chi vuoi che sia?”.
Nessuna risposta. Poi: «Sì, mamma». Pochi passi e la porta si richiuse.
Il ragazzo apparve dietro la casa, mentre loro due erano ancora seduti intorno al tavolo, ed entrò nel prefabbricato. Il lampione nel giardino, accanto al tavolo con le sedie, lasciava nell’ombra una zona; la madre pensò che bisognasse aggiungere un altro punto luce.
Rivolta al marito, disse: «È andato nel bunker.»
«Non è una fortezza, è il posto dove sua madre non gli rompe le scatole.»
«Adesso sarebbe colpa mia? Tu lo isoli dalla casa, gli fai arrivare quella specie di coso, e la colpa di tutto sarebbe mia?»
Si alzò e lanciò il tovagliolo sul tavolo. Il marito non si scompose.
«Sei troppo ansiosa, gli stai addosso.» Parlava come se stesse elencando la lista della spesa. «Non gli fa bene altro stress.»
«Abbiamo il tuttologo. Finché gli conviene, poi se ne lava le mani.»
Agitò le mani davanti al marito come se ci fosse un pubblico: «Meglio non vedere, giusto?». Stanca, gli voltò le spalle e si rintanò in cucina mormorando: «Lascia perdere.»
Riempì di nuovo il lavello, bolle di sapone si alzavano e ondeggiavano nel movimento dell’acqua. Il telefono squillò ancora.
Si ricordò improvvisamente che avrebbe dovuto chiedere a Paolo di Francesca, prima di battibeccare con il marito. Le venne in mente l’immagine del fisico acerbo della ragazza, sottile come quello di una cavalletta, le sue gambe da fenicottero che camminavano veloci verso le aule e i capelli neri raccolti in una coda dalla quale scappavano sempre ciuffi ribelli o mal pettinati. Ma, soprattutto, le dita: dieci rebbi che si muovevano molli e sembravano picchiettare ogni oggetto sul quale si posavano, come le zampette di un ragno, mai insieme. Asciugò le mani in fretta e furia, sollevò il cordless e compose un numero.
«Ciao, Annamaria, Paolo è appena rientrato, se aspetti in linea vado a chiedergli se sa di Francesca. Un attimo, eh.» Sentì l’amica dire “va bene”, quando si voltò vide il figlio ritto al centro della cucina. Il viso pallido e gli occhi sembravano quelli di un altro.
«Tesoro, è la madre di Francesca, dice che non è ancora tornata a casa, l’hai vista, per caso? Era con voi?»
«È passata un attimo a salutarci, poi ha detto che raggiungeva un’amica alla tavola calda.»
«Sai il nome di questa amica?»
«Forse me l’ha detto, ma c’era troppa gente intorno e non ho afferrato, mi spiace.»
«Hai sentito, Annamaria? Sono certa che stia ancora da Mario con quell’amica, visto? Non c’è nulla di cui preoccuparsi.»
La prima ad essere angosciata per tutta quella situazione era proprio lei. Mentre il marito se la prendeva comoda, il mondo stava crollando. Chiuse la telefonata con un sospiro, sentì l’ansia dell’amica come propria. Finché i ragazzi non erano al sicuro nelle loro stanze, non si poteva stare tranquilli.
Venne attirata da uno strano odore, proveniva sicuramente dalla cucina. Forse la pattumiera. Intanto, il figlio si era seduto sullo sgabello, appoggiato al top con la mandibola sui palmi e la schiena ricurva, gli occhi socchiusi. Di nuovo diede la colpa al bunker di legno che troneggiava nel suo giardino, dietro la villetta.
«Paolo, lo senti anche tu questo odore? Mi sta prendendo lo stomaco, ma che cos’è?»
Il ragazzo scosse la chioma e sollevò la lattina di Coca portandola alle labbra. Un rivolo marrone scese dall’angolo sinistro. Lo asciugò con il polso. Gli occhi verdi, incorniciati da ciglia lunghe come quelle di una ragazza, guardarono la madre.
«Ho le testa che mi scoppia, con tutte queste notizie che ci bombardano. A ogni telefonata il cuore mi va in gola… Non ce la faccio proprio.»
Nascose la faccia tra le mani, come a voler piangere.
Il ragazzo scese dalla sedia e le andò incontro per abbracciarla. La madre lo abbracciò a sua volta, poi si ritrasse.
«Sei tu che hai questo odore!» esclamò con gli occhi socchiusi coprendosi la bocca e il naso con le mani. «Oddio, vai a cambiarti. Cos’è, sudore?»
«Abbiamo fatto una partita al parco, ma poi un vecchio, un poveraccio, ci ha detto che gli davamo fastidio.» Prese a pugni l’aria. «Non si può fare nulla in questo paese di merda!»
La madre lo spinse lontano da sé, seccata per quell’espressione volgare.
«Non ti permettere di parlare così con me, come se fossi uno dei tuoi amici» lo rimproverò, poi sciacquò le mani sotto il getto del miscelatore, come se avesse toccato qualcosa di sporco.
«È tutta colpa di quell’affare lì, quello ti sta rovinando!» gridò indicando il prefabbricato.
«È l’unica cosa buona che papà ha fatto per me.»
Prima che la madre potesse mollargli uno scappellotto, girò i piedi nudi e tornò nella sala da pranzo. Lanciò un’occhiata scrutatrice al padre che, intanto, aveva terminato la cena e si stava aiutando con uno stuzzicadenti.
«Ciao, papà.»
L’uomo sobbalzò nelle spalle, come uno che non se l’aspetta, tolse il bastoncino dalla bocca e annuì: «Come sta andando la scuola? Ci sono problemi?».
«No, papà, va tutto bene.»
«Perfetto, mi fa piacere. Ricordati che gli studi sono la prima cosa, l’unica arma che hai contro l’ignoranza. Non c’è altro modo per emergere dalla mediocrità». Si mise a pulire lo stuzzicadenti con il tovagliolo. «Purtroppo tua madre non ha mai lavorato, questo è stato il suo handicap peggiore.»
«Certo, papà, è come dici tu.»
L’uomo annuì prima di tornare a tormentare i denti con un altro bastoncino. A quel punto, il ragazzo non ebbe più nulla da dire. Si chiuse nella stanza e si addormentò guardando il soffitto che diventava sempre più piccolo e pensando a quel vecchio raggrinzito che li aveva cacciati dal parco. Dimenticò di prendere la pillola serale.
Venne svegliato verso le cinque dalle sirene della polizia. Quel suono aveva interferito con un sogno che stava vivendo al punto tale che si era confuso, per poi realizzare che si trattava di qualcosa di reale e di tremendo.
La madre si era svegliata da una mezz’ora abbondante: non era riuscita a dormire bene a causa di quelle auto che si erano incrociate tutta la notte alternando fari, sirene e clacson. A un certo punto, come qualcosa che arriva nel buio, prima un puntino, poi una biglia che mano a mano si ingrandisce, era scattata l’allerta. La ragazza, la figlia di Annamaria, Francesca, non era tornata, allora i genitori si erano messi in auto ed erano corsi dai Carabinieri a denunciare la scomparsa. Non poteva trattarsi di una coincidenza, non dopo quel primo ritrovamento.
Il reparto dei sub aveva dragato il cerchio di lago nascosto dagli alberi, dove spesso i ragazzi si rifugiavano a bere e fumare lontano dagli sguardi degli adulti, questo accadeva prima che la paura si piazzasse nei loro stomaci. Erano tornati nel punto in cui era stata trovata la prima ragazza, ma era chiaro che lì non avrebbero rinvenuto nulla, l’assassino aveva il suo piano.
Giravano voci: qualcuno l’aveva vista camminare con un ragazzo, altri l’avevano salutata alla tavola calda in compagnia del gruppo di amiche con cui era solita uscire, poi era come se di lei si fosse persa la memoria, come qualcuno che viene ripreso dalle telecamere, ma che, appena esce dalla visuale, svanisce nel nulla. Si cercava di mettere insieme tutte queste informazioni per ricostruire gli ultimi momenti di Francesca, prima che fosse inghiottita dalla minaccia che poteva camminarle accanto o nascondersi dentro qualcuno che conosceva. Una cosa era chiara, come una macchia di sangue sulla stoffa: fra loro c’era un assassino.
La donna era in cucina; accanto a lei, sul rettangolo di tappeto in rattan, la figlia scarabocchiava omini a forma di patate sui fogli di un album. Guardò senza interesse la raggiera di pastelli a cera, ogni tanto la piccola ne cercava uno infilato tra due pagine o sotto la gamba.
Il marito entrò, si salutarono distrattamente, dopo si preparò una tazza di caffè con la cialda monouso. Poi, si sedette al tavolo quadrato appoggiato alla parete, sollevò il coperchio di un barattolo di vetro, versò due scie di zucchero bianco nel caffè e lo girò con lentezza.
«Ci sto pensando da un’ora.» Alzò il mento verso la moglie appoggiata al lavabo. «Vorrei andare a trovare Ernesto e Annamaria.»
«Sei proprio sicuro che sia una buona idea? Non ci sono notizie di Francesca…» mormorò portando una mano al viso. «Mio Dio, come faranno a superare tutto! Come si sopravvive a una cosa del genere, tua figlia esce di casa e poi non torna più… non riesco a pensarci.»
Il marito posò con cura il cucchiaio sporco di caffè sul tovagliolo piegato a triangolo, la chiazza marrone si allargò sulla carta come un cerchio. «Ormai non c’è più nulla da sperare, povera ragazza.»
«Non dire così, è orribile!» urlò con il viso nascosto nelle mani. «Poteva esserci uno dei nostri ragazzi lì fuori!» aggiunse tra i singhiozzi.
«È l’unica cosa che mi dà conforto. Lo so, sono un egoista, ma devo essere razionale e guardare la cosa a una certa distanza. Adesso credo sia una buona idea, la tua.»
La moglie lo guardò senza capire.
«Mandarlo da tua sorella.»
«E Beatrice? A lei non pensi?»
Entrambi si voltarono a guardare la testolina bruna e ricciuta che ogni tanto si piegava sui fogli e poi tornava a sorridere prima all’uno poi all’altra, le dita perfette attaccate ai piedini nudi e grassottelli. Entrambi pensarono che l’assassino prendeva solo adolescenti.
Rumori in giardino svegliarono Paolo. Quando allungò le gambe sul materasso della sua stanza, nella villetta, si rese conto di aver dormito vestito: il jeans ancora arrotolato sulle caviglie lo costringeva sui fianchi. Sentì il viso appiccicoso, come quando le lacrime si asciugano sulla pelle e la tirano. Sfilò la maglietta e rimase a torso nudo, le costole rigarono il petto e la pancia diventò concava quando si piegò per infilarsi i calzini.
Poco dopo, la jeep lasciò il viale e si allontanò sulla strada principale.
La donna raccolse i fogli e i pastelli a cera e s’incamminò con la piccola in braccio che puntava l’indice in direzione ora di un limone, ora di un ramo di ulivo. Ogni mattina c’era bisogno di far arieggiare la casa di legno, spalancare per una mezz’ora la porta e la finestra del bagno: un antro angusto con lavello e tazza, in cui aveva messo un vecchio specchio riciclato di ferro battuto comprato al mercato della domenica. Tutto sommato, l’aveva resa una tana accogliente. Una volta fatta scendere la piccola, aprì la porta con la copia delle chiavi. Un caldo posticcio l’avvolse mentre avanzava sulle tavole di legno: qua e là, abiti indossati e raggomitolati, libri affastellati sul pavimento, la porta del bagno semiaperta, un tablet che non ricordava poggiato a faccia in giù sulla scrivania, foto scattate da una polaroid e appese a un filo di spago con mollette di plastica lucida blu e fucsia. Meglio non mettere mano in quel disordine, sapeva che Paolo perdeva le staffe quando qualcuno toccava le cose senza il suo permesso. Lo sguardo cadde sulla scatola bianca con la scritta viola posta sul davanzale della finestra. L’afferrò e la scosse: era piena. Aveva raccomandato a Paolo di prendere una pillola al mattino e una prima di coricarsi: “Se non seguirà la cura scrupolosamente, non avremo risultati apprezzabili. Nel giro di qualche settimana torneranno gli attacchi”. Ecco perché c’era una confezione anche in casa.
La piccola, che camminava accanto alle gambe della mamma, a un certo punto si staccò, attirata dalla fila di scarpe di fianco alla porta.
«Non toccarle, Bea, è cacca!»
Sapeva che quegli oggetti erano irresistibili per la figlia, come per tutti i bambini.
«Okay, iniziamo dal bagno» disse dando un ultimo sguardo alla testolina riccioluta.
Anche Paolo era entrato in quello della sua stanza, nella villetta. Si era sfilato i pantaloni e li aveva appallottolati lasciandoli sul montone di panni. Prese lo shampoo dalla mensola della doccia, girò entrambe le manopole del lavandino, era in procinto di abbassare la testa sotto al getto, quando vide le unghie: erano corte, soprattutto quelle dei pollici, tanto da lasciare scoperto un sottile lembo di pelle con intorno un’aureola di pellicine, e l’unghia del mignolo si era spezzata, mentre le altre gli parvero luride di croste marroni. Gli salì un conato di vomito che riuscì a trattenere. Mise le dita sotto l’acqua e passò tra le mani la saponetta, che diventò da bianca a rosa e, infine, bianco sporco.
Poi, abbassò la nuca.
Intanto, la madre aveva spruzzato disinfettante e aceto nel gabinetto e sulle mattonelle intorno, aveva atteso cinque minuti e poi aveva ripulito con un panno. Improvvisamente, dalla casa, arrivò ovattato il rumore del cordless. Le venne un groppo in gola: poteva essere un’altra notizia terribile, ma doveva rispondere. A fatica, trascinò i piedi dove la figlia stava giocando con le scarpe, mettendo dentro le manine e agitandole come delle marionette. Non ebbe nemmeno la forza di sgridarla, le disse solo di andare, dovevano rientrare in casa.
Afferrò la maniglia e le vide: le sneakers. Lo sguardo letargico sfiorò quelli che sembravano schizzi marroni e rossastri impressi sulla pelle bianca e azzurra. Fece scendere la bambina dalle braccia, prese le scarpe con movimenti lenti e le annusò. Riconobbe quell’odore che aveva sentito la sera prima, un miscuglio di erba e di terra. Non c’era dubbio: era sangue. Sangue rappreso.
Come se qualcuno l’avesse afferrata per i capelli e dato una strattonata, ricordò Francesca, con il suo sorriso aperto e gentile, poi pensò alla prima ragazzina, la figlia dei Bracco, alla freschezza degli anni che le erano stati rubati e che, forse, erano stati strappati anche a Francesca. Perché?
Guardò la piccola che, intanto, stava giocando con un altro paio di scarpe, guardò la parte di casa che affacciava da quel lato, confusa si sporse per vedere il cielo, libero, azzurro, lo stesso che vedevano altri da qualche parte nel mondo. Pareva che quel pezzo di turchese la stesse guardando, cercando, come lei, di capire. Si voltò e annusò l’aria pulita di quel luogo che sembrava isolato dal mondo: l’aveva detto, al marito, che sarebbe stato un posto disgraziato, che avrebbe portato la sfortuna in casa. O, forse, era stata proprio lei, con i suoi ragionamenti di madre, a portare la morte da loro. Improvvisamente, una fitta nella testa la fece vacillare. Afferrò uno scatolone, di quelli che il marito caricava in auto per la spesa mensile e che Paolo aveva riciclato a mo’ di libreria, lo aprì e ci buttò le scarpe, i vestiti sparsi sul pavimento, il panno con cui aveva lucidato il bagno, ogni cosa le saltasse agli occhi. Frenetica, allucinata, guardò un’ultima volta la stanza prima di chiudersi la porta alle spalle. Piena di forze, quasi risollevata. Avanzò nel giardino mentre la figlia le sgambettava accanto e a ogni passo raccoglieva un sassolino o una foglia, non le sembrava vero di non stare in braccio alla mamma.Camminava con quel coso in grembo. Il telefono smise di squillare. Anche la testa smise di farle male. Dalla strada principale, il rumore della jeep e il crepitio delle ruote sulla ghiaia, come qualcosa che scoppiava sotto le gomme, la riportarono alla realtà. Poggiò lo scatolone nel portabagagli della propria auto, un’utilitaria comprata all’usato, poi chiuse il portellone. Quel colore senape della carrozzeria le aveva fatto storcere il naso, ma il prezzo era davvero invitante. Prese per mano la piccola. Intercettò il viso tirato del marito. Quel fremito era ancora tutto lì. Sorrise mentre gli andava incontro, come non faceva da tanto.
L’autrice
Mi chiamo Manuela Fucci, vivo in una delle città più belle del mondo, Napoli. I miei personaggi sono tratti dalla realtà e soprattutto dai sogni. ‘Sangue freddo’ è un’idea nata una sera qualsiasi, mentre leggevo. Ed eccolo qui, interpretato dagli ‘attori’ che ho scelto. Mi dedico ogni giorno alla scrittura e alla lettura e amo fare lunghe passeggiate a piedi per le strade della città. Di recente ho pubblicato un racconto su Donna Moderna e sono impegnata nella revisione di altri di prossima pubblicazione.
IG: manue_co
L’editor
Il mio nome è Martina Valenti, ho 23 anni e sono laureata in Lettere moderne presso l’Università degli Studi di Catania. Da oltre un anno vivo a Milano, dove sto per conseguire la laurea magistrale in Editoria presso l’Università degli Studi di Milano. Sin da bambina, sono sempre stata circondata dai libri e, complice mio nonno Sebastiano, professore di storia medievale per lavoro e redattore per passione, ho scelto di fare del mio amore per la carta stampata la mia professione e di diventare, così, editor. Curiosa per natura, adoro imparare tutto quando abbia a che fare con questo affascinante e vastissimo settore e cercare di apprendere i segreti di un lavoro, a mio parere, meraviglioso. Sono una lettrice curiosa, vorace, appassionata e poliedrica e nutro una particolare predilezione per i classici italiani, i romanzi storici e i thriller.
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