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“La macchina dei Ricordi. Nostalgie di una vita”
di Francesca Tognoli
Editing di Simona Bracchitta
Quella notte il cielo era limpido. Un cielo in cui, se ti soffermi a guardare con attenzione, riesci perfino a scorgere la lieve scia candida della Via Lattea.
Gianni era lì, il naso puntato verso l’alto. Fissava quella distesa di stelle, come non faceva da molto tempo. Un giorno aveva semplicemente smesso, dimentico di ciò che da ragazzo era stata una delle sue più grandi passioni, distratto e troppo preso dallo scorrere della vita per preoccuparsi di una cosa che pareva tanto superflua.
Quando trovò la Via Lattea gli sembrò più luminosa dell’ultima volta; d’altra parte, erano passati anni e la memoria ogni tanto gli giocava brutti scherzi.
Si tamburellò le dita sulla pancia e poi sfiorò la carrozzeria liscia del cofano sotto di lui.
Ricordi.
Una vita intera di ricordi.
Ormai non ci stava più nemmeno una briciola, nemmeno un granello di sabbia sarebbe riuscito a entrarci.
Gianni sospirò. Un sospiro lieve, malinconico.
«Cosa farò senza di te, mia cara Bianchina?»
Si soffermò ancora per qualche attimo con le dita sulla vernice lucida, poi decise che era arrivato il momento di ripartire.
Scivolò giù dal cofano e l’asfalto scricchiolò sotto le sue scarpe, fragrante come una crosta di pane fresco.
Entrò in macchina. Il sedile in pelle nera lo accolse come solo lui sapeva fare: morbido e un po’ logoro, con qualche molla fuori posto, ma ancora così confortevole da ricordargli il materasso sul quale dormiva quando era piccolo. Quando sua mamma gli accarezzava quel punto tra il naso e la fronte per farlo addormentare, e gli raccontava storie per scacciare gli incubi la notte.
Gianni chiuse gli occhi, riportando alla mente il viso sorridente della madre, il profumo di fiori che sembrava seguirla ovunque andasse, come un velo trasparente che non le lasciava mai le spalle.
Il solo ricordo aveva ancora il potere di rassicurarlo.
Quante cose c’erano in quella macchina. Quante cose.
Era rimasto libero solo un posto per lui, ormai.
Ogni angolo era stato occupato dalle cose più svariate, anche la più modesta spilla da balia aveva preso posto lì dentro.
Su alcune c’era polvere, tanta polvere. Su altre ce n’era solo un leggero strato o qualche granello. Ma non importava, perché Gianni più o meno consapevolmente ricordava ogni pezzo di quella collezione. Ognuno aveva un significato. Ognuno aveva un posto.
C’era confusione, doveva ammetterlo, ma chi, d’altronde, non era un po’ confusionario nella vita?
Gianni non avrebbe saputo dire quando erano diventate così tante. Quando tutto era diventato così caotico.
Non avrebbe saputo ricordare il momento in cui il grosso baule si era fissato al tettuccio della macchina. Non avrebbe saputo dire quando era successo, quello no, ma sapeva molto bene quale conseguenza aveva portato con sé: il bel tettuccio apribile della sua cara Bianchina si era trasformato all’improvviso in un tettuccio qualunque; bello, sì, ma inutilizzabile.
Accadde allora che anch’esso diventò un posto sul quale le cose si annidarono. Divennero talmente tante che Gianni dovette, un giorno, non ricordava quale giorno, passare una corda intorno a ogni borsone, cornice, valigia, macchina da scrivere, gabbia per uccelli per ancorarle tutte ed evitare che, una volta in viaggio, ogni cosa rotolasse via, disperdendosi lungo la strada, rimanendo indietro, sbiadendo. Scomparendo.
Ciò che però nessuno avrebbe mai immaginato – e che rendeva così curiosa quella miriade di oggetti legati al tettuccio – era che nonostante il vento e la velocità, anch’essi prendevano polvere.
Gianni si accorse infatti, qualche tempo prima, che sul baule, oltre ai libri e alle fotografie che si erano aggiunti, aveva cominciato a depositarsi un velo sempre più spesso di polvere.
“Se solo fosse neve. Mi piace la neve, è chiara e limpida.”
Ora, se ci avesse passato sopra un dito, sarebbe affondato per quasi cinque centimetri in quello strato scuro e impalpable, quasi fosse fuliggine.
“La polvere fa bruciare gli occhi. La polvere confonde, non mi piace la polvere.”
Abbassò i finestrini. Prima uno, girando velocemente la manovella cigolante, poi l’altro, allungandosi oltre il sedile del passeggero, ormai anch’esso pieno zeppo di cose. Quelle però non erano cose sue, erano di una donna. Una donna che aveva amato molto, la donna che gli aveva tenuto compagnia per quasi tutta la vita: sua moglie.
Nell’infinità di oggetti che lo circondava, ve n’era uno che significava molto per lui: un maglione color indaco, con i bottoni perlati e gli orli ricamati.
Era il maglione preferito di sua moglie, glielo aveva regalato lui per il primo anniversario di matrimonio. Vi era talmente affezionata che quando divenne così liso da non poterlo più indossare, decise di rinnovarlo e usarlo come copertina per il bambino, donandogli un nuovo scopo.
Sua moglie era così, riusciva a trasformare qualcosa di consumato in qualcosa di nuovo, di diverso. Lei ridonava vita a tutto ciò che ne aveva bisogno, lui compreso.
Gianni si ritrovò a pensare che la sua Bianchina era proprio come quel vecchio maglione; anche se il tettuccio della cabrio era ormai chiuso da anni, l’aria indiscreta che entrava dai finestrini si avvicinava molto alla sensazione della capote abbassata. Certo, non era ugualmente elettrizzante o sconvolgente, ma lui l’apprezzava proprio per quello, perché in qualche modo, pur essendo sempre la sua Bianchina, qualcosa di nuovo era nato in lei.
Gianni sapeva che non tutto poteva rimanere uguale agli inizi. Negli inizi è tutto più avvincente. L’inizio di un romanzo, l’inizio di una relazione, l’inizio di una nuova avventura. Gli inizi sono talmente pieni di cose nuove! Impossibile trovarli noiosi.
Se sapessimo già cosa celano gli inizi, questi perderebbero il proprio nome. Sarebbero qualcosa di conosciuto, di consueto, qualcosa che ha smesso di sorprenderci.
Sua moglie però gli aveva insegnato che anche quel consueto poteva essere bello. Una bellezza più calda, più sicura. Una bellezza conosciuta e capace di darti conforto.
Quella stessa bellezza che Gianni ritrovava nell’aria che entrava dai finestrini abbassati. Non tanto eccitante quanto la sensazione dell’avere il cielo sulla testa, così vicino da poterlo toccare con le dita, ma godibile come la brezza primaverile che porta in sé quella caratteristica e familiare illusione di novità.
Così, Gianni si era ritrovato confortato da quell’aria leggera che, quando aveva messo in moto la sua cara Bianchina, aveva cominciato a gironzolare per l’abitacolo, mossa dalla curiosità tipica di un elemento tanto stravagante.
La strada era deserta, lunga fino a non vederne la fine. Immersa nella natura, fra tratti di fitta foresta e aree desertiche. Distese di alberi rigogliosi che rincorrevano pianure inaridite.
Non c’erano lampioni, ma lui guidava tranquillo, sapeva dove stava andando. Lo sapeva da molto tempo ormai. È qualcosa che vengono a sapere tutti prima o poi, una strada dove in molti convergono, lungo la quale tanti rallentano e dove, a volte, alcuni si perdono.
Gianni voleva godersi quella notte, quell’aria, quelle stelle, la sua Bianchina, le sue cose, perciò decise di rallentare.
Lanciò un’occhiata nello specchietto retrovisore e fece vagare lo sguardo sul mucchio di cose che si alzava fino a toccare il tettuccio.
In tutto quello che, osservandolo da fuori, qualcuno avrebbe potuto definire ciarpame, lui vedeva qualcosa di molto prezioso.
Tra sciarpe, modellini di barche, tazze sbeccate, lampadine e calendari da muro spelacchiati, lo sguardo di Gianni si concentrò sul profilo della grande valigia di pelle marrone. Era difficile distinguerla nell’ombra, ma lui sapeva che non era impolverata come tutto il resto. Era vecchia e malandata, i lacci logori riuscivano a stento a tenerla chiusa, tanta era la pressione, eppure agli occhi di Gianni, per qualche istante, si mostrò come nuova, ancora lucida e vibrante.
Fu proprio quel vecchio oggetto, che attirò in maniera tanto risoluta la sua attenzione, a fargli salire le lacrime agli occhi.
Quello era uno dei suoi inizi, l’inizio più bello di tutti, gravido di aspettative, di amore e speranze. La cosa migliore che sentiva di aver fatto nella vita, la più spaventosa e generosa del mondo. La più nuova e imprevedibile di tutte: la sua famiglia.
Lì era dove era nato tutto; lì era dove era nato quel Gianni che anche lui conosceva, che tutti conoscevano.
Lì era quando ogni cosa era una prima volta, quando tutto era così impetuosamente vivido da fare allo stesso tempo così bene e così male.
Asciugò una lacrima che gli era rotolata sulla guancia ruvida e si ritrovò a sorridere. Sorridere come faceva sempre quando ripensava a quei momenti preziosi e pieni.
Gianni si chiese se quello che aveva fatto fosse stato abbastanza: “Chissà, forse avrei potuto fare meglio, avrei potuto fare di più. Però io sono felice, non ho rimpianti. Ciò che ho dato so che non è stato invano, so che porterà a qualcosa di altrettanto bello, più di quanto non lo sia già.”
Si accorse allora che non era rimpianto quello che sentiva, e neppure malinconia.
Era nostalgia.
Nostalgia di tempi passati, nostalgia di una vita da scoprire e di aspettative trasformate in realtà.
Nostalgia, non rimpianto.
La nostalgia era un bel sentimento, dopotutto. Parlava di cose vissute e amate, parlava di quel caro e vecchio senso di casa che ognuno si porta dentro dalla nascita, che col passare del tempo diventa un ricordo dolceamaro capace di donare conforto, legato a un posto, a un oggetto, a una persona, a un odore… Sapeva che quel sentimento non lo avrebbe mai lasciato; non puoi liberarti di qualcosa che fa parte di te, sarebbe come lasciare indietro una mano o un piede per dimenticanza. Che cosa ridicola!
Ridacchiò, pensando a come avrebbe potuto mai essere un Gianni diverso da quello che era in quel momento. «Che baggianata» borbottò tra sé, scuotendo la testa.
Eppure, i se erano qualcosa che molta gente prendeva in considerazione: se fossi stato meno codardo, se fossi stato meno pigro, se avessi detto sì, se mi fossi impegnato di più… Molta gente si interrogava, congetturava, ma non lui.
Gianni era certo che avrebbe potuto fare le cose in modo diverso, e magari le avrebbe fatte meglio, e più giuste, ma allora che ne sarebbe stato di lui? Del Gianni che tutti amavano e conoscevano, del Gianni che lui stesso amava e conosceva?
Non sarebbe più esistito, non così, non lo stesso.
E chi avrebbe potuto dire che quel Gianni, quello descritto dalle congetture, fosse migliore del Gianni che era in quel momento? Chi avrebbe potuto assicurare che quel Gianni avrebbe realmente fatto le cose meglio, e più giuste?
Nessuno. Ecco chi.
Per questo non aveva rimpianti. Per questo la nostalgia che provava non era un sentimento triste, perché era il ricordo di quello che amava ed era fiero di aver fatto.
Tornò a concentrarsi sulla strada, un sorriso quieto sulle labbra.
Era un viaggio in solitaria il suo; un viaggio in cui nessuno avrebbe potuto accompagnarlo.
Eppure non si sentiva solo, al contrario, si sentiva così pieno e in compagnia di vecchi amici da poterne quasi percepire il calore sulla pelle.
Passò la mano sul liscio cruscotto azzurro e accese la radio. Le note gracchianti di una canzone si riversarono nell’abitacolo stracolmo, e riempirono Gianni di un’improvvisa felicità.
Erano note ripetute e canticchiate fino allo sfinimento, note che lo riportarono a quando il tettuccio della sua cabrio poteva ancora aprirsi, libero. Un tempo in cui l’eccitazione e l’aspettativa erano all’ordine del giorno e l’aria turbinante che entrava dalla capote abbassata lo faceva sentire vivo, capace di raggiungere qualunque posto desiderasse.
Un’altra epoca di prime volte, un’epoca di passioni e amicizie, un’epoca in cui quel grosso baule che, carico di responsabilità, si era poggiato sul tettuccio della sua cara Bianchina non esisteva ancora. Quella era l’epoca delle scelte per eccellenza. Scelte che prendi ingenuamente e che poi si rivelano essere il vero inizio dell’avventura.
Seguendo la strada, Gianni tamburellò a ritmo le dita sul volante, lasciandosi cullare da quelle note familiari fin quando un luccichio non attirò la sua attenzione. Era il medaglione che teneva appeso allo specchietto retrovisore; un regalo di suo padre. Il ciondolo raffigurava un piccolo albero in fiore intarsiato nell’argento, tanto minuscolo quanto perfetto.
Suo padre l’aveva creato con le proprie mani in onore della sua nascita. C’era chi piantava un vero albero come simbolo della venuta di un figlio e chi, come suo padre, affidava quel significato a un particolare oggetto.
Il ricordo del padre gli portò un po’ di malinconia. Gli mancava. Una mancanza che col tempo si era affievolita, come è abitudine della natura umana, ma mai dileguata o assopita.
Prese il ciondolo tra le dita, ne tastò le lisce protuberanze, avvertì la forma rotonda e conosciuta premergli sulla pelle, il metallo fresco a contatto col calore della sua mano.
Di tutte le cose, quella era l’unica che non aveva mai preso polvere, l’unica che non si era mai sbiadita o arrugginita. Molte cose lì avevano perso la loro forma originaria, molte si erano consumate o scheggiate, molte erano state schiacciate e seppellite sotto altre sempre un po’ più nuove.
Gianni aveva compreso, con il passare degli anni, che più spesso portava l’attenzione su una stessa cosa, meno polvere quella prendeva, e ugualmente, più la guardava e più quella si consumava, si confondeva, sbiadiva.
Temeva, a volte, che se si fosse soffermato troppo sull’uno o sull’altro, un giorno avrebbe potuto veder svanire nel nulla tutti quei preziosi oggetti, come immagini di vecchie pellicole proiettate troppe volte, scolorite e consumate, bruciate dal troppo utilizzo.
In cuor suo, però, sapeva che quel medaglione era l’unica cosa davvero preziosa. L’unica che, non importava quanti anni sarebbero trascorsi, sarebbe rimasta intatta, tale e quale a com’era il giorno della sua creazione.
“Se potessi scegliere di portar via qualcosa da qui, sarebbe questo. Solo questo. Potrebbe sembrare insignificante in mezzo a tutti questi oggetti, ma questo ciondolo rappresenta me, tutto me. Non solo una parte o qualche briciola. Questa è la sola cosa che vorrei lasciare a mio figlio.”
Chissà se gli sarebbe stato permesso.
«Chissà…» la voce gli uscì, ad alimentare quella speranza.
Guidava, assorto nei pensieri, quando si accorse che il panorama stava cambiando.
In lontananza, sfocate, comparvero le luci dell’edificio verso cui sapeva di essere diretto.
Gianni rallentò ancora, forse per timore.
Ai lati della strada apparivano gradualmente file di macchine parcheggiate. Briciole impolverate che segnavano la direzione.
Alcune nuove di zecca, altre vecchie e con pezzi mancanti, altre ancora stracolme come la sua, ma abbandonate, ferme lì da chissà quanto tempo.
Gianni si chiese perché qualcuno avesse voluto abbandonare in quello stato delle cose tanto preziose, alla mercé di chiunque avesse voluto ficcarci il naso.
Lo sommerse la tristezza per coloro che avevano dovuto lasciare indietro così tanto, e si sentì triste anche per sé stesso perché, nonostante tutto, anche lui stava per lasciare indietro qualcosa di suo.
Strinse il volante con un po’ di convinzione in più, e si disse che, in fondo, quello era il suo momento e che nessuno poteva fermare il destino.
Aveva sempre pensato che la sua strada fosse stata decisa molto tempo prima, quando quegli oggetti non facevano ancora parte del suo mondo, quando la sua cara Bianchina era tutta nuova e fiammante. Il segreto non era conoscerla, la strada, il segreto era saperla percorrere fino in fondo; proprio come aveva fatto lui, convivendo con errori e paure, godendo di gioie e traguardi. Non gli importava sapere dove tutto quello lo avrebbe portato, ciò che importava era fare in modo che ogni momento, ogni oggetto, ogni esperienza fosse e rimanesse qualcosa di unico. Suo. Fino all’ultimo.
Gli erano sempre piaciuti i viaggi più che le mete. C’era poco da fare, era fatto così. Amava l’insieme dei processi che rendevano le cose ciò che erano. I meccanismi, le logiche nascoste; ai suoi occhi, il percorso era la vera parte affascinante.
Qualche tempo prima, non ricordava quando, aveva letto una frase che lo aveva fatto pensare: La vita ha valore poiché esiste la morte.
Gianni non era una di quelle persone eccessivamente introspettive e filosofeggianti, non avrebbe mai potuto riconoscersi in quei termini; eppure, quelle parole lo avevano colpito. E rimuginando, con lo sguardo fisso sulla strada, si rese conto che un po’ filosofo poteva esserlo anche lui; che lì, nella sua cara Bianchina, in quell’ultimo viaggio, l’unica cosa che gli era rimasta era tempo per pensare.
«Poiché esiste una fine, esiste anche un inizio» mormorò tra sé.
Chissà se quei percorsi che gli piacevano tanto erano così importanti per lui proprio perché esisteva una meta, un punto di arrivo.
Chissà se ad attrarlo, del percorso, non fosse la possibilità di renderlo meritevole di essere vissuto fino alla fine. Fare in modo che ne valesse la pena. Fare in modo che le sofferenze fossero lenite dalle gioie e che le gioie fossero ricordate con calore, lontane dall’ombra dei tormenti che nascondevano.
Dove c’è un inizio si trova anche una fine, dove c’è imperfezione vi è perfezione. Non è così per tutto in fin dei conti?
Ecco cos’era quell’ultimo viaggio per lui; il tragitto verso il termine di un lungo percorso che era stato capace di ammaliarlo. Ogni secondo, ogni minuto, ogni giorno di più.
Quando raggiunse il piazzale di quella che sembrava una vecchia officina abbandonata, l’aria cessò di circolare e l’intero abitacolo sembrò ammutolire.
Il momento era giunto. Tutto era come doveva essere.
Si guardò intorno e si ritrovò a sperare che la meta raggiunta fosse all’altezza del viaggio. Poiché per dare giustizia alla grandezza di quel percorso, il finale doveva essere un gran finale: uno di quei finali che nei film si guardano col fiato sospeso, le mani strette al petto, gli occhi pieni di aspettative e la pelle formicolante. La conclusione perfetta di una memorabile colonna sonora, un climax di note vibranti e armoniose. Il giusto epilogo per quella che non poteva essere altro se non l’avventura più meravigliosa di tutte.
Tirò la leva del freno a mano come aveva già fatto mille altre volte. Eppure, quella volta il suono fu come una scossa che gli arrivò alle orecchie portando con sé qualcosa di definitivo. Di irreversibile.
Prese un profondo respiro, chiudendo per qualche istante gli occhi.
Certo, il suo percorso più grande era arrivato al termine, ma era davvero possibile che fosse tutto lì? Un finale può essere davvero solo un finale?
Gianni pensò che se quelle erano le domande, altrettante dovevano essere le risposte. E se per ogni cosa che moriva, ce n’era sempre un’altra che nasceva, per ogni finale, doveva esserci anche un nuovo inizio.
Estrasse le chiavi dal quadro e se le fece scivolare in tasca, poi prese coraggio e scese dall’auto. Questa volta le scarpe non fecero alcun rumore sull’asfalto, o se lo fecero, Gianni non se ne rese conto. “Non posso lasciarlo qui.” Aveva deciso.
Si sporse nuovamente nell’abitacolo e allungò il braccio per afferrare il ciondolo d’argento che brillò sfuggente alla luce di un lampione. Lo strinse forte prima di far scivolare anche quello in tasca.
«È giusto che stia con mio figlio» mormorò, e il tonfo della portiera che si richiudeva riverberò risoluto nell’aria, quasi a voler sigillare quel momento.
Gianni posò lo sguardo sulla sua cara Bianchina, per quella che sapeva sarebbe stata l’ultima volta.
Il tettuccio pieno di oggetti accatastati, la vernice azzurra ancora lucida, punteggiata qua e là da graffi e bozzi, il volante ormai consumato; quell’insieme multiforme di oggetti della sua anima che riempivano i sedili e ogni piccolo vano, e lasciavano libero solo il posto per lui, a sottolineare ciò che ormai non poteva esser più travisato o ignorato: tempo e spazio erano arrivati agli sgoccioli.
Gianni sentiva un peso sul petto; non amava gli addii e quello era il più difficile di tutti.
«Hai fatto buon viaggio?» una voce maschile lo sorprese alle spalle, e lo fece trasalire.
Si voltò e trovò un ragazzo dal viso tondo e gentile, in piedi di fronte a lui. Se ne stava lì, a fissarlo con gli occhi stretti in una linea ridente.
«Uhm…» Gianni bofonchiò, confuso. Era sicuro di essere solo in quel posto.
«Non temere, manca solo qualche ultimo passo.» Il ragazzo gli posò una mano sulla spalla.
A quel contatto, Gianni si sentì pervaso da una tranquillità e una calma corroboranti, come nel momento appena prima di addormentarsi, con il tepore delle carezze della sua mamma che lo cullavano verso sogni di bambino.
Una sensazione assai bizzarra data la situazione.
«Chi sei?» Questa volta Gianni parlò senza esitazione.
«Non è importante chi io sia» rispose il ragazzo senza smettere di sorridere. «Puoi scegliere di vedermi come un compagno di viaggio, come una guida o più semplicemente come qualcuno che hai incrociato per caso durante il tragitto. Qualunque scelta tu prenda non cambierà la mia essenza. Il mio compito è mostrarti la strada e prendermi cura della parte di te che non potrai portare oltre questo punto.»
«La strada?» Gianni si sentì colto di sorpresa, pensava che quella fosse la fine della strada da percorrere. C’era dunque un’altra strada ad aspettarlo? E come avrebbe potuto pensare di percorrerla lasciando indietro una parte così grande di sé?
«Il gran finale.» Il ragazzo gli fece l’occhiolino. «La conclusione della tua personale colonna sonora.»
«Tu come fai a…» Gianni sussurrò confuso, aveva pensato quelle esatte parole solo pochi minuti prima, come poteva conoscerle quel ragazzo?
«Io so quello che sai tu» rispose lui, facendo spallucce e arricciando il naso con espressione innocente, poi aggiunse a bassa voce: «E qualcosina in più.»
Senza dire altro, il ragazzo si voltò e gli fece segno di seguirlo verso l’officina.
«Aspetta! La mia macchina…»
«Non preoccuparti, tornerò a prenderla quando sarai ripartito. È in buone mani qui con me. Ora seguimi.»
Gianni indugiò, le gambe ancorate al suolo. Doveva sapere. Doveva essere certo che la sua Bianchina non facesse la fine di quelle povere auto abbandonate sul ciglio della strada come spazzatura.
«Non voglio che finisca dimenticata su quella strada» disse in un sussurro quasi impercettibile.
«Di questo non devi preoccuparti» la voce del ragazzo lo sorprese, così squillante in quel silenzio ovattato. Si era fermato, gli occhi gentili puntati di nuovo su di lui. «Tu sei qui, hai completato il viaggio. Le macchine che hai visto appartenevano a chi ha avuto troppa paura per andare avanti, a chi ha preferito continuare a vagare senza meta, senza uno scopo. Il tuo cuore è coraggioso, Gianni. Niente verrà dimenticato, fidati di me.»
Gianni si sentì stranamente rassicurato dalle sue parole. Non sapeva per quale ragione, ma sentiva che poteva davvero fidarsi, era qualcosa che percepiva fin nel profondo di sé. La sua Bianchina sarebbe stata al sicuro lì. Ovunque si trovasse quel lì.
Il ragazzo riprese a camminare e Gianni si affrettò a raggiungerlo.
«Dove siamo ora?» chiese, nel tentativo di dissipare la confusione che gli fluttuava nella mente.
«In un punto tra il qui e il poi» rispose il ragazzo.
A quella strana risposta, Gianni lo guardò perplesso, e chiese: «Siamo ancora sulla Terra?»
«In apparenza, sì.»
Il ragazzo si fermò di fronte alla porta dell’officina ed estrasse dalla tasca un mazzo di chiavi tintinnanti, tutte diverse tra loro. Ne scelse rapido una tra il mucchio e la infilò nella toppa.
La serratura scattò con un rumoroso clack metallico e il ragazzo spinse il battente, che si aprì cigolando sui cardini arrugginiti.
«Prego, entra.»
Gianni esitò per qualche istante prima di fare uno, due… tre passi e superare la soglia.
L’interno dell’officina era buio e polveroso, l’aria umida e pesante sui vestiti sapeva di chiuso.
«Cos’è questo posto?» chiese al ragazzo che, alle sue spalle, raggiunse un interruttore e lo fece scattare, illuminando di una sottile luce gialla tutto l’ambiente.
«Un punto di stazionamento per i mairicordi» rispose lui, scavalcando qua e là cose sparse sul pavimento ed evitandone altre a penzoloni dal soffitto, per farsi strada verso la parte opposta della stanza, dove si trovava un’altra porta.
«I mairicordi?» chiese Gianni, perplesso.
«È così che chiamiamo le cose mai ricordate.» Il ragazzo si chinò e con uno sbuffo spostò di peso uno scatolone impolverato.
«Cose di chi?» chiese, passando oltre a un cavallino a dondolo con mezzo muso staccato ed evitando per un pelo la punta dell’antenna di una radio che penzolava da uno scaffale pieno di libri rosi dalle termiti.
«Tue, naturalmente.»
Gianni era ancora più confuso di prima. Come potevano essere sue quelle cose così distrutte e ammuffite? Non gli erano per nulla familiari e lui le sue cose le conosceva molto bene, avevano viaggiato insieme per tutta la vita, era impossibile che potesse dimenticarsi di averle avute con sé.
«Tutto è possibile, Gianni» si voltò a guardarlo.
Gianni sussultò sorpreso, puntando gli occhi su quello strano ragazzo, scrutandolo come se fosse un complesso rompicapo.
Aveva davvero risposto a un suo pensiero?
«Non guardarmi così, te l’ho detto, io so tutto ciò che sai tu.»
«Mi leggi nel pensiero?» chiese Gianni, immobile al centro della stanza caotica.
«È un po’ più complicato di così» il ragazzo si grattò una tempia, soprappensiero. «Per dirla nel modo più semplice: io ho accesso alla tua conoscenza. Nell’esatto istante in cui componi un pensiero, tu stesso ne vieni a conoscenza e di conseguenza anch’io ne prendo coscienza.»
«Come un sensitivo?»
Il ragazzo scoppiò in una fragorosa risata. «Se vuoi metterla in questi termini, fai pure» disse, senza smettere di ridacchiare. «Ora sbrigati, però. Abbiamo una tabella di marcia da rispettare.»
Gianni pensò che, per essere una guida, quel tipo era assai poco convenzionale.
Ricominciando ad arrancare tra le cianfrusaglie sparse per il pavimento, decise di esprimere ad alta voce quelli che erano i suoi dubbi: «Non sento di possedere nessuna di queste cose ammuffite. Tu dici che sono mie, io dico di non averle mai viste in vita mia.»
«I mairicordi sono, per definizione, cose delle quali non ricordi nemmeno l’esistenza, ma non significa che non siano mai esistite.» Il ragazzo frugò di nuovo nel mazzo di chiavi e ne estrasse un’altra, poi continuò: «Sono interazioni, eventi dei quali non ti è mai riaffiorato il ricordo. Cose che sono successe, ma che non sono mai ritornate, che non hai mai rivissuto o alle quali non hai ripensato. Ciò non toglie, però, che siano cose tue, tanto quanto lo sono tutte quelle riunite nella cara Bianchina.»
«Se è vero, perché rivedendole non ricordo?»
«Perché purtroppo una volta perse, una volta lasciate indietro, vengono private di tutto il loro valore. Ora non sono altro che simboli vuoti. Tu non puoi sentire loro e loro non possono sentire te.»
«È triste» commentò Gianni mentre si osservava intorno. Sedie a dondolo senza schienale, ombrelli senza manico, scarpe senza punta: si chiedeva a quale parte della sua vita fossero appartenuti. Si chiedeva quante cose non sapesse di non ricordare.
«È naturale. Non puoi ricordare tutto, qualcosa deve essere sacrificato per far posto a ciò che ha più importanza» spiegò il ragazzo.
Gianni ragionò per qualche istante, e pensò che dopotutto aveva senso, la mente umana non poteva certo considerarsi infinita, ricordarsi tutto l’avrebbe condotta alla pazzia.
Quasi inciampando su un carillon a forma di carosello, raggiunse la sua bizzarra guida che spalancò anche la seconda porta.
Questa volta Gianni prese l’iniziativa e, senza che il ragazzo glielo chiedesse, superò la soglia, e si ritrovò all’aria aperta.
Il paesaggio che si rivelò ai suoi occhi era il più bello che avesse mai visto: una lunga strada si srotolava serpeggiando perfettamente al centro di una vasta pianura punteggiata di cosmee selvatiche. Il cielo notturno era solcato da un’infinità di stelle che rilucevano come diamanti attorno a un brillante stralcio di luna crescente, che illuminava quei petali viola e bianchi, trasformando la pianura in una vivida distesa di colore lilla.
«È bellissimo» sussurrò Gianni, lasciando vagare lo sguardo su quel paesaggio incredibile.
«È opera tua» il ragazzo lo affiancò. «Ognuno vede qualcosa di diverso una volta superata questa porta. Certo, perfino io devo ammettere di averne visti pochi di paesaggi così» commentò ammirato.
«Non credo di essere capace di niente di simile» replicò Gianni. «Temo che non avrei potuto immaginare una vista come questa nemmeno se me l’avessero descritta.»
«Continui a essere scettico» scuotendo la testa il ragazzo incrociò le braccia al petto come farebbe un genitore che rimprovera un figlio. «Tutto ciò che vedi è ciò che la tua coscienza ha creato come tuo percorso finale. La strada è sempre stata la tua compagna di vita più cara.» Con un cenno del mento indicò davanti a loro, verso l’orizzonte: «Non ti riconosci? La tua passione per le stelle, la tua predilezione per la notte, i fiori di campo che raccoglievi da piccolo, la pianura che adoravi annusare in primavera. Tutto questo sei tu» concluse, e aprì le braccia come a voler cingere quell’intera veduta.
Gianni ammutolì.
All’improvviso riusciva a comprendere ciò che il ragazzo gli stava dicendo. Osservando ogni dettaglio che aveva davanti, riconobbe pezzi della sua vita. Quel magnifico paesaggio era l’insieme delle cose che più aveva care: i posti della sua infanzia, le passioni, i fiori che raccoglieva per sua madre prima, e per sua moglie e per suo figlio poi…
«Esatto!» il ragazzo sorrideva come un bambino alle giostre. «Stai comprendendo, finalmente.»
«Come posso io aver creato qualcosa di così incantevole?» Gianni sentì le lacrime salirgli agli occhi; era tutto così bello da fargli battere forte il cuore.
«Hai vissuto una bella vita, vecchio mio» disse il ragazzo con affetto, lasciando vagare lo sguardo lontano. «Quelle più belle si riconoscono dal finale.»
Gianni si asciugò le guance con il dorso della mano. Non avrebbe mai pensato di poter provare di nuovo delle sensazioni così sconvolgenti. Si sentiva così pieno di gioia, così riconoscente, come quando aveva posato per la prima volta lo sguardo su suo figlio appena nato. Un minuscolo fagottino, la faccetta rugosa e gli occhi grandi, più grandi di quanto avrebbe creduto possibile, così curiosi e vispi.
«È il momento, Gianni.» Il ragazzo gli posò una mano sulla spalla, guardandolo con gentilezza. «Devo chiederti di consegnarmi le chiavi» disse e allungò l’altra mano verso di lui, il palmo aperto rivolto al cielo.
Gianni esitò per qualche istante. Era davvero pronto a lasciar andare la sua Bianchina? Era davvero pronto per quello che sarebbe venuto dopo?
«Non posso dirti cosa troverai alla fine di quella strada» intervenne il ragazzo in risposta ai suoi dubbi. «Posso dirti soltanto che tutto ciò che vedi è solo una piccola parte di ciò che ti aspetta. Quello che lasci qui non smetterà mai di far parte di te. Ti sentirai solo un poco più leggero, come quando torni a casa e svuoti la valigia dopo un lungo viaggio.»
Gianni prese un profondo respiro e, dopo aver stretto tra le dita le chiavi della sua cara Bianchina, prese coraggio e si decise a fare la richiesta che temeva più di tutte.
«Prima di andare vorrei lasciare qualcosa a mio figlio» disse a mezza voce. «È un ricordo che mio padre lasciò a me, vorrei che l’avesse lui. Che non rimanesse qui con tutto il resto.»
Il ragazzo strinse le labbra pensieroso: «Sai dove si trova? Il medaglione intendo, è un oggetto che esiste ancora sulla Terra?»
Gianni dovette pensarci un poco, poi annuì. «Esiste ancora, ma non so con esattezza dove sia. Volevo trovarlo e consegnarglielo prima di partire, ma non ho fatto in tempo.»
«Allora posso farlo» affermò il ragazzo, «farò in modo che tuo figlio lo ritrovi per caso. Il baule delle tue vecchie foto dovrebbe andare bene.»
Gianni sentì salire di nuovo le lacrime agli occhi; era grato che quell’inconsueto ragazzo avesse accettato la sua richiesta, ed era grato che il medaglione potesse finalmente ritrovare la giusta strada.
Nonostante quella strana sensazione di calma continuasse a fluttuargli intorno, quando lasciò cadere chiavi e medaglione nella mano del ragazzo, si rese conto di avere i palmi sudati.
«A tutti viene concesso un ultimo desiderio.» Il ragazzo fece un lieve inchino nella sua direzione. «Non temere, mi prenderò cura di tutto.»
«Te ne sono grato» mormorò Gianni, guardandolo negli occhi.
«È ora che tu vada.» Il ragazzo indicò con un cenno del capo la strada davanti a loro. «Tutto ciò che devi fare è seguire il percorso.»
Gli fece un sorriso di incoraggiamento, e Gianni sentì che era davvero giunto il momento.
«Come capirò quando sarò arrivato?»
Il ragazzo guardò prima lui e poi l’orizzonte. «Come sempre, vecchio mio» rispose, negli occhi il riflesso del cielo stellato, «ascoltando ciò che hai nel cuore. Nessuno potrà mai decidere per te. Ciò che hai fatto, ciò che farai, tutto dipende da quali sono le tue scelte. Quello che sulla Terra pensavi fosse scritto nel tuo destino, non era altro che il risultato inevitabile delle decisioni prese. Voi umani guardate al destino come a qualcosa di astratto, scolpito nelle stelle da una qualche onnisciente entità superiore. Non potreste essere più lontani dalla verità.»
Gianni aggrottò le sopracciglia, confuso. «Intendi dire che dipende davvero tutto da noi?»
«Libero arbitrio, Gianni. Quando siete sulla Terra solo voi potete decidere del vostro destino» rispose facendo spallucce. «Questo, però, non esclude che per ogni individuo ci sia un percorso immutabile già segnato. Ogni scelta, ogni dubbio, ogni decisione appartiene soltanto a voi, ma quello che per voi avverrà, in un certo senso qui è già avvenuto. Non esiste linearità. L’ordine temporale che usate sulla Terra, qui dove siamo ora, perde di ogni valenza. È il risultato finale ciò che conta.»
Gianni fu disorientato da quella scoperta. Nella sua vita aveva dato per scontato che i concetti romantici di destino e di fato fossero due unità imprescindibili. Fu quasi come scoprire il segreto che sta dietro a un bel trucco di magia: si affievolisce la meraviglia e giunge la consapevolezza.
Ma in qualche modo con questa consapevolezza si ritrovò a provare una profonda e forse egoistica gratitudine. Giuste o sbagliate che fossero, le scelte che lui aveva preso lo avevano portato fin lì.
Osservò quella pianura e quel paesaggio straordinario, frutto della propria coscienza, e si sentì sereno come mai era successo prima. Leggero come se un peso invisibile avesse lasciato finalmente le sue spalle. Libero.
Quello che aveva pensato che sarebbe stato solo un gran finale, si era rivelato molto di più. Era la risposta a tutti i suoi dubbi e incertezze: era la certezza di aver fatto del bene.
E fu la realizzazione più importante di tutte.
«È davvero incredibile» sussurrò, colmo di riconoscenza e ammirazione.
«E non hai ancora visto il resto» rispose il ragazzo con un sorriso gentile. «Non aver paura. Fai ciò che sai fare meglio: lasciati guidare dalla strada.»
Gianni gli rivolse uno sguardo pieno di gratitudine. Poi, con rinnovata aspettativa, drizzò la schiena, prese un profondo respiro e senza più alcuna esitazione fece il primo passo.
L’autrice
Francesca Tognoli
Laureata in mediazione linguistica, ama cucinare, leggere e soprattutto scrivere. La sua ispirazione nasce spesso dai sogni e, a detta di chi la conosce, il suo passatempo preferito è avere la testa tra le nuvole.
È appassionata di drama coreani (rigorosamente sottotitolati in inglese). Ha una seria dipendenza da caffeina e il suo sogno nel cassetto è potersi trasferire un giorno in un posto pieno di café caratteristici dove potersi rintanare in santa pace con un libro da tradurre tra le mani e l’ennesimo cappuccino sotto il naso.
IG: @franny_to
L’editor
Simona Bracchitta.
Ho 42 anni, ragusana, sono una lettrice accanita, appassionata anche di teatro e di disegno, e il mestiere di editor mi incuriosisce molto, seppure nella vita mi occupo di tutt’altro. In generale mi piace indagare sulla costruzione e la tecnica che stanno dietro l’arte e tutto ciò che è bello.
IG @simobrak
FB: https://www.facebook.com/simona.bracchitta
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