Per l’Iniziativa “Tre racconti per…” Niccolò Mencucci ci presenta il suo incalzante racconto, critica serrata e ironica al mondo dell’Imprenditoria Culturale. Una storia quasi esilarante e serratissima come il manoscritto che il protagonista si ritrova fra le mani, inerme contro i colossi delle “storielle semplici”.
ALLA PENOMBRA
NOTA
Anche se legato a vicende vagamente autobiografiche, il seguente “racconto” presenta fatti, eventi, citazioni e persone volutamente censurate o rimodificate in aspetto, linguaggio, professione o identità sociale. Inoltre affermazioni pesanti o critiche al vetriolo o lievi forme di confabulazione dovrebbero essere viste come confacenti parte più del testo, e non necessariamente espressione e mentalità dell’autore o dei personaggi narrati. Il testo cerca di proporre efficacemente diversi registri e stili linguistici (dialetto/lingua, termini specifici, gergo…).
“Il massimo della mia vita l’ho dedicato ai libri degli altri, non ai miei”
(I. Calvino, intervista di Marco d’Eramo, 6 giugno 1979)
Mi rovinerebbe tanto al cuore non poter vedere finalmente quel libro pubblicato o editato o corretto almeno da un diligente editor di provincia o da un zelante correttore di bozze – purtroppo mi toccherebbe avvisare anche dei semplici addetti stampa o qualche non dormiente delegato esterno per la consultazione editoriale a pago, ma il problema non si porrebbe in quel caso perché arriverei a metter mano al mio stipendio da consulente di immagine aziendale pur di vedere l’opera pubblicata – e mi darebbe un fastidio tremendo assistere all’ennesima scomparsa di un barlume di scrittura curiosamente originale, incredibilmente inedito, deliziosamente rinnovante e allegramente spiazzante, tant’è ora l’imbarazzante microcosmo letterario nazionale dell’antilingua.
La fugacità delle narrazioni migliora a vista d’occhio, secondo la mia miopia sarcastica; citazione dall’ennesimo rampante semi – curatore di una volutamente anonima per ragioni legali rivista del capoluogo
«E l’abbisogna vendé! La gente vol trame, vol storielle! Un mi devi rompè il batacchio, a grullo d’un chianino, me devi a portà belle storielle! E noi si ha da aver quattrini, sinnò si chiude bottega!».
Classico esempio di come l’opera sia diventata merce, col bene placido della profezia naturalistica del Benjamin, in relazione alla meccanicizzazione dell’oeuvre d’art in serialità produttiva1 a fini di ingolosire e intrippare la massa di non – lettori; mentre gli autori se ne vanno e se ne vengono presi dall’Ombra.
Mi parrebbe però sciocco non valutare come il nome di Germano Tozzi sia assolutamente anonimo: non sa di autore, non è conoscibile, nessuno sa chi sia e nessuno nutrirebbe mai di interesse per un anziano chianino butterato dai mali senili; e lui se ne sbatteva altamente, lui così immerso nella vallata dove era nato, cresciuto, stipendiato, ammogliato, ramificato, pensionato, così assolato nella sua dignitosissima vita qualunque, così facile alla prossimità dell’oblio della sua autobiografia e delle altre biografie descritte e narrate in quel dattiloscritto che m’avrebbe fatto più piacere avere seguendo il protocollo editoriale topico (carattere 12, Times New Roman o Courier, interlinea 1.5, paragrafi e spazi omogenei), protocollo che ovviamente non conosceva, né tutt’ora conosce. Ma pace a lui e alla sua penna improvvisa che tanto m’aveva fatto appassionare in tutti i sensi, tra accanimento amoroso e disperazione suicidale.
Mi sarebbe piaciuto intrattenermi di più nella sua dimora, nella sua casina a due piani e sette locali comprensivi di lavanderia impiastrellata e asettica, studiolo incartato e biblio – maniacale, camere da letto ora spartane e polverose e abbandonate dal figliame e ora imbellite da spiriti lasciati e chincaglierie di estrema religiosità, e classica cucina in simil – legno e soggiorno buono e meridiano e salone da pranzo festivo. Tutte insieme alla penombra delle persiane abbassate e sotto un’atmosfera cheta e fresca.
Lui se ne andava per le camere e le stanze in cerca di qualcosa ammorbato dall’afa in canottiera e pantaloncini corti, glabro e bolso e iperattivo e reattivo, mentre la moglie si accompagnava alle sue faccende e ai suoi pensieri trascurando la realtà presente nella mia entrata in scena, incamiciato e corredato di pantaloni lunghi e scarpe a punta (e avrei dovuto mettere la cravatta ma pace a me).
«Zia Regina m’è venuta a dì che lei ha un libro…» e avrei dovuto essere più preciso, specificando la mia genealogia, la mia nipotanza con la sola persona della mia famiglia che conosce, Zia Regina Minetti2, ben conosciuta per essere l’erede dei tre ettari coltivati attorno alle proprietà demaniali, a cui ogni anno, scaltrissima col suo marito faccendiere, si pone di prenderne poco a poco un pizzico di terreno per sé (e trent’anni prima mica aveva tre ettari: ne aveva due ettari e settanta are!).
«La Ré! La Volpe! Altri acri… altri casini… Venga!» e in cammino verso lo studiolo, sotto quella penombra, «La Volpe! C’avrà capito del testo? Quanto rise la sciocca! Venga! Lavora?».
«Consulente!».
«Ah, bene! In cosa?».
«Aziendale! Ma ho il pallino per l’editing… ».
Si fermò e mi guardò intendendomi l’inesistenza di una lessicografia inglese,
«… editoria! Lavoro sui testi!»,
«Ah, bene! Italiano, cristiddio!» e continuammo il cammino sotto quella penombra. «Io ebbi a fà’l vinajolo per conto di osterie ed enoteche! Ora, fegato ch’è nammerda!» e ridemmo.
«Venga!» e allo studiolo accese la luce e s’avvicinò alla scrivania di carte, «Prenda!».
Ecco il malloppo, e mi parve pure leggerino, facilotto.
«Ma così piccino l’è?».
«Legga! Apra!».
Cento pagine a interlinea 1, carattere 9, Arial: avrei voluto svenire.
«Per quanto lo vol?».
«Orc…Pago, si figuri!».
«Ma icch’è dice a bimbo! Il tempo! Quanto vole il testo, per quanto tempo vuole leggerlo?»
«Due settimane!” Avrei dovuto chiedergli più settimane di lettura.
«Essia!» e scendendo le scale a poco dall’uscio mi confidò senza porsi al sole del meriggio: «Glielo regalerei pure, ma i nomi sono tutti veri, e la gente viva… se diventa libro sono morto, si dissanguano… me lo riporti, non faccia parola con nessuno».
Mi sarei dovuto ingegnare di più nella lettura, nello scavalcare a ogni passo quella maleficia editoriale, un punto d’onore al mio masochismo; sarebbe stato necessario un chicco in più, con cui prima avrei potuto far esplodere quel bel big bang di storie ed eventi, in cui dissolvermi nelle personalità narrate, nelle scene costruite, nei vari tempi interposti. Almeno avrei potuto ottenere giustificazione valida per scamparmene dalla serata.
Di ritorno nelle segrete stanze arrivò presto il richiamo di un mio collega di azienda, Antonino Lovo detto Toni il rompicojoni per antonomasia, il genio delle lettere divenuto in pochi mesi un tornello di autografi per il suo libricino regionalista e sentimentalista.
«Piero, ci sei, Piero, ho una festa, ci sono tante persone, vieni Piero, vojono promove ’l mio libricino ancora» e a sentire quella serie inutile di autocompiacimenti sotto forma di celebrazioni futili alla razza aretina a mo’ di il – mio – paese – nel – bene – e – nel – male, con quel titoletto algido Ombroso colle. Viaggio di un’aretino3, dio – mio, dio – mio il brivido che mi convulse al ripensarci!
«Piero che fai, ce sei ancora?».
«Quanno?».
«Quanno?».
«La festa!».
«E vieni allora! Stasera!».
Se non altro mi tranquillizzai durante la spola da casa mia in colle alla sua in periferia, nel rione borghese con cui divide l’alloggio con due mantenuti dallo Stato e dalla famiglia in attesa di concludere tirocini o stage o altre bofonchiate.
«Che tanto se ne stanno là, sempre a spararse porno o video trash su internet, e il più de casi li becco a farsi una maslunga4…» e lui invece che ora è uno scrittore esordiente e che deve mobilitarsi di qua e di là
«… perché le riviste vojono sempre un pezzo di me, e mi mettono sempre le foto mie e gli scritti miei e io sono stanco e non mi posso godere un po’ dei miei quattrini…».
E guardavo durante il viaggio verso il palazzotto nobiliare di questo Imprenditore di Cultura, fregiato con gli Ori comunali e provinciali, in bella mostra nel Corriere e nel Quotidiano, se potevo usufruire di qualche buca per renderlo celebrità postuma in pochi istanti e per salvarmi e fargli qualche foto postuma per le riviste sue.
Mi vedrei parecchio bene a fare il guardiano per quel palazzotto, tutto decorato con colonnini e torrette aggiuntive e selezionate nell’architettura voluta dall’Imprenditore di Cultura, se non altro per evitare di vivere in quella prigione dorata madre delle solitudini dei potenti e del terrore dei popolani, per il signorotto che analizza e scruta la città sapendo su qualche attività posare l’iride mercantile.
Così mi pareva Egli, l’Imprenditore di Cultura, secondo le benevole lingue l’eroe dei suo paese, mecenate della arti e dei mestieri, secondo le malevole lingue un imprenditore prossimo all’arresto per associazione criminale. L’Imprenditore di Cultura era altissimo, bellissimo e amabilissimo per la veneranda ciurma di ospiti trentenni addobbati a venturi ricconi e yuppies anacronistici, uno stallone di due metri barbuto e occhialuto con codino equino e denti albumi che sorridendo salutava, abbracciava, ringalluzziva, strizzava gli occhi suoi cristallini a donne, uomini, bambini nella luce totale delle lampade, lampadari e lampioni: ’occhi di culo5 era il soprannome suo tra i cronisti quella sera che parlottavano per gonfiarsi le fauci in preda alla fame grassa e alla sete alcolica.
«… occhi di culo se fa portà le cittine6 appresso, un vedi?» Toni mi confidava in sincronia con i sorrisetti dei giovincelli cronachisti del Quotidiano, tutti seduti eleganti all’attenti in attesa della sua salita nel palcoscenico olimpico ex salone grande in stile neoclassico del palazzotto in origine villa primonovecentesca di richiamo fattoriale.
«… occhi di culo è frocio?».
«Domandi?».
«E bisex?».
«Un capisco…».
«Il merda… il merda credo abbia il Quotidiano… abbia il Corriere… abbia le biblioteche… abbia le associazioni culturali… abbia le fucine della gioventù… il merda» e il giornalista dietro ci tranquillizzò:
«Non ancora! Compra, rivende, compra, ricontrolla… non ancora».
Ora era per tutti: svettava sorridendo dal palchetto improvvisato alla perfezione, l’Imprenditore di Cultura.
«Signori! Abbiamo uno scrittore! Giovanissimo e delicatissimo! Ha scritto su Arezzo! Ha colpito tutti rifacendo riscoprire la Città Nostra da cui io e tutti noi proveniamo! Una storiellina semplice! Serve la semplicità! Serve qualcosa di autentico e vero! Servono queste storielline! Un applauso ad Antonino Lovo!» e Toni, poco dopo avermi proferito: spero prima o poi di dare a quell’avanzo di galera un bel calcio nei cojon…, si avvicinò all’Imprenditore di Cultura e gli ricambiò l’abbraccio invitato.
«La ringrazio, lei è gentilissimo, lei è davvero un’ottima persona e farà bene alla nostra società, lei ha creduto in me e a tutti i giovani delle associazioni, lei vuol bene a tutti, lei è amabilissimo» e poi tocca al suo sé inattendente: «Io ho fatto fatica, io ho dovuto lottare contro il foglio, io non ce la potevo fare senza la mia casa editrice, io ho sofferto nello scrivere, io ho creduto nella mia gente e nelle mie radici, io devo molto ai miei autori, io devo molto a…» ed elenca autori che non aveva mai letto davvero, ma che altri leggevano e che lui aveva imitato solo per piacezia, stupido emulatore che non era.
Cominciò nell’orgia di buonismo che mi stava ammorbando orrendamente.
«Al tempo io ero anedonico. Io ero un debosciato. Io ero un disperso e annichilito, come direbbe Freud un sé inattendente. Come un angolo ottuso, avevo le braccia in aria. Ho ventilato l’aria della mia camera da una seggiola prodotta da una azienda aretina, di Arezzo, da dove vengo, in alluminio lavorato. Avevo lo sguardo sullo schermo del mio animaletto domestico preferito, l’ordinateur: fogli Word, appunti Text e grafici Excel. All’improvviso il magari – editor mi raccontò che aveva scoperto da una sua zia la storia di un suo popolano. Lui soffriva di tante malattie cardiovascolari e respiratorie, come l’angina pectoris, o il bronchiolo, o il disturbo alveolare cronico, o l’arteriosclerosi, o la disfunzione alla valvola mitralica, o il soffio al cuore».
A parte gli ennesimi errori lasciati sparsi ovunque anche dopo riedizioni e riletture in pubblico, ma sempre, sempre questo pezzo di merda, questa schifosa scenetta rubata dalla mia vita e ricostruita con quella disadorna auto – finzione dei miei cojoni, sempre così lui vuole dimostrarmi e ammorbarmi della sua riuscita e del suo trionfalismo inutile e applaudito ad ogni fine lettura, con tanto di apprezzamenti nel buffet da signorine in cerca di sesso e bambini progenie della demenza famigliare, sempre devo vedere la scenetta di lui che sorrideva all’Imprenditore di Cultura sorridente ad ogni frase scialba e senza vita di quel pusillanime di un amico mio, la scenetta di lui portato in trionfo dalle genti sorde, di lui grondante di cibo e alcol che mi ordinava di riportarlo nella sua magione provincialotta.
Mi sarei divertito di più se avessi avuto in mano il file digitale o almeno l’autorizzazione per la riscrittura o almeno la correzione a penna nera (né blu, né rossa, solo nera per correttezza)7, così avrei potuto salvare il testo dalla sua forma originaria. Dopo quella serata spesi il cellulare e mandai a quel paese ogni mio insano tentativo di connettermi alla realtà cittadina in piena festività – e se al lavoro mi chiedevano consulta, tanto c’era l’email e tanti saluti – e staccai Wi – fi e Rete Mobile per togliermi il gusto di interrompere la lettura da cavolate youtubesche dispersive. E incominciai. E m’interruppi per l’orrore: tutto unitario, tutto confabulato, claustrofobico, carcerario, ma mi mancava l’aria! Ma cosa mi stava prendendo, non lo volevo leggere più, così, subito: che ero la mia zia?
«Pie, l’hai saputo?».
«Cosa zia?».
«Germa ha scritto. Tu ch’i leggi, vai a vedé!».
«Perché, tu?».
«Diomenescampi! Ho da lavorà, io! Mica a dir trojate su tutti come lui…»
«Cos?»
«Un lo leggo: è un casino assurdo! Ancora la storia dei campi! Se lo va a dir in giro lo denuncio!».
E Toni mi cercò.
«Icché fai?»
«So occupato!»
«Ancora quel testo? Ma ste bojate da vecchi, perché?».
«Perché sì, diocristo!».
«Ma sarà un casino! O tu l’hai sentito ieri il merda: semplicità! Piuttosto, ci sei per andare a figa?».
Staccai e tornai, ma non riuscivo a capirci nulla, ma era sgrammaticato, un delirio di errori, non è che allora avevano ragione quelli lì delle storielline e della semplicità… porca troja è morto, di già. Nemmeno alla terza riga e già è morto: morto, contorto in sé, il parlato scompare. La morte viene presentata con toni diretti: sic est. Alla morte sua gli altri vivono, continuano a sopravvivere, il dialetto torna subito dopo la scomparsa. Avanti col testo la gente cerca di sopravvivere nella povertà, procede, va avanti, non si fa venire a prendere dalla Fame e dalla Follia. Ogni racconto diventa non più la storia di una famiglia ma l’approccio alla vita per quella famiglia: vino, scherzi, baruffe, ladrate. E l’umorismo, la vitalità delle persone, le scenette dolci e tenere, la distanza tra potenti italofoni e poveri dialettofoni celata sotto i frutti della disperazione, noia, assenza di pensiero, speranza, ambizioni. La gente parla, la lingua si deforma ed esce. Il testo comincia a lottare, non ne vuole sapere di interrompersi, è come se Germano avesse cominciato a lottare contro qualcosa e avesse preso a scrivere tutto ciò per evitare il compimento di qualcosa. Sempre quel qualcosa quasi si presenta in tutti i racconti come il motivo di quest’ansia, questa voglia di raccontare prima che finisca tutto; e deve per forza vivere nel dialetto, non nella lingua ufficiale, solo lì riesce a vivere.
In conclusione, lessi tutto, mi diedi due sberle per non averlo scoperto prima e per aver quasi ceduto a quegli imbecilli e corsi da lui: era morto. Cioè, la moglie di lui mi raccontò distrutta che poco dopo la mia uscita da casa sua si sentì male all’ombra, ebbe come uno strozzo alla gola:
«Se contorse en sé oddio… se cimbolò a terra… se come si spegnesse… ictus! Il fegato! Il male…» e lo portarono all’ospedale in città, «… e lo stavano trasportando, ma niuno l’ha cagato de striscio, lui che voleva bene a tutti… nessuno era uscito a viderlo… e si vede la morte de continuo in tivi, se rompe ’l cazzo a vedere i morti poi quanno è il mi omo nessuno lo caga…» e piangendo la lasciai nella sua casa chiusa a sfogare l’orrore dell’eventuale perdita e l’eventuale lutto solitario. «Germano! La guerra ha fatto! In Germania è finito!»
Germano sopravvisse con qualche acciacco alla crisi epatica presa in tempo: il danno fu limitato malgrado la sua apparizione esageratissima8.
Mi sarei dovuto comportare diversamente con lui: appena tornato a casa con le stampelle e la moglie porta-ossigeno per procura, mentre io, pronto col dattiloscritto e il computer per il file digitale, gli chiesi se era disponibile.
«Un rompe i cojoni! M’hai visto?»
«Ma il testo… »
«Ma tientelo… mettilo dove te pare… sono cazzi tua».
E mi salutò dandomi le spalle mentre entrava nella sua casa spenta e stanca.
Mi sarei dovuto imporre con quello lì, a Firenze, dopo un’incessante spronatura alla pubblicazione, dopo un’insistente affidamento di responsabilità per la correzione e l’impaginazione, dopo un’esasperante prova di qualità del testo, bastava solo correggere.
«Nonè! Nonè! Un lo vojamo! E te lo dico il perchè, che sono sincero… chi cazzo vole legge il chianino… le storie della Chiana… le morti e tragedie di gente morta, già morta, inutili! Un hai capito che per vendere serve che la gente compri! E l’abbisogna vendé! La gente vol trame, vol storielle! Un mi devi rompè il batacchio, a grullo d’un chianino… me devi a portà belle storielle! E noi si ha da aver quattrini, sinnò si chiude bottega!».
«No tu m’hai rotto, te e la tua rivista di imbecilli! Ma che volete, la gente che legga stronzate dalla mattina alla sera o si rincojonisca come su Youtube non facendo una sega? Mi sono rotto i cojoni de voi fanfaluchi della buona ora, cercate i quattrini e ve ne frega nulla di uno che scrive davvero. Mi sono rotto. Andate a fare in…».
Magari l’avessi detto, ma così avrei scritto fine alla mia potenziale carriera da magari – editor. Alla fine tutto questo me ne dà fastidio, e mi rovina il cuore; e poco importa.
1Walter Benjamin, “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, Einaudi (prima edizione 1936). Delizioso saggio che spiega come l’arte diventi merce già con fotografia e cinema, e come sia facile usarla per qualsivoglia scopo (politico-propagandistico o socio-economico)
2Chiamata anche col cognome nubile, alquanto sospettoso: Edere. Probabilmente è un falso popolano.
3Originalmente il testo è scritto in tal maniera, con l’apostrofo nel posto sbagliato.
4Termine ambiguo: può intendere sia l’atto masturbatorio sia la sessione drogativa.
5Dal fondo della bottiglia di vetro, ovvero “culo”. Attenzione ai poco dovuti doppi sensi.
6“Ragazze” in dialetto aretino. Ho ridotto l’uso di termini dialettali per evitare la creazione di un glossario.
7Come le maestrine d’un volta, che all’errore grave usavano la blu, e all’errore leggero la rossa…
8“L’epatite già in sé è na rottura…aggiungi il fattore d’origine alimentare e capisci te…la prognosi non è delle migliori…” (cit. epatologo dell’Ospedale)
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Ecco dove potete trovare Niccolò
Ricordo a tutti che l’autore più gradito potrà pubblicare un’intervista, perciò se vi è piaciuto il racconto condividetelo, commentatelo e lasciate un “mi piace”!
“Tre racconti per…” è una rubrica bi – mensile. Continuate a lavorare sui vostri progetti e vi terrò informati non appena apriranno le selezioni ottobre!
Per qualsiasi dubbio o domanda contattatemi all’email che trovate QUI.
A presto,
Gloria
Una replica a “Tre racconti per… – Alla penombra di Niccolò Mencucci”
[…] Ecco il link al racconto – Alla penombra di Niccolò Mencucci […]
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