Tre racconti per… – L’Ortecan di Chris Morand

© Editor Gloria Macaluso

Per l’Iniziativa “Tre racconti per…”, Chris Morand presenta una fiaba dolcissima e surreale sul misterioso mondo degli Ortecan e su una bambina, Alice, che non ne vuole sapere di vedere le cose come stanno.


L’Ortecan

«Non voglio che tu vada a giocare nel bosco» disse la nonna. «Si vocifera che ci siano degli Ortecan».

«Sì, nonna» rispose Alice. In realtà non stava ascoltando. Sdraiata sul pavimento, era intenta a giocare con il gatto. Teneva in mano un gomitolo di lana e lo muoveva su e giù, mentre Nerino cercava di afferrarlo con la zampa.

«Si mimetizzano tra gli alberi e se ti afferrano con i loro rami, non hai più scampo. Hai sentito quello che ti ho detto?»

Alice lasciò cadere il gomitolo e si alzò. «Uffa! Sì, ho sentito».

«Lasciala in pace» intervenne il nonno «Ormai non è più una bambina piccola. Sa che deve obbedire».

«Sì, come se non la conoscessimo». La nonna incrociò le braccia al petto. «Alice ha un concetto tutto suo di obbedienza. Quando poi combina qualcosa… lo sai, ci guarda con gli occhioni innocenti e dice “ma non è stata colpa mia!”. Come se tutto il mondo ce l’avesse con lei».

Alice sbuffò. Si pulì le mani nella gonna a fiorellini e uscì sul retro della casa, seguita da Nerino.

La giornata era ancora calda, ma non c’era nulla di interessante da fare. Come tutte le estati, una settimana prima dell’apertura delle scuole mamma e papà la portavano dai nonni, rovinandole gli ultimi giorni di libertà. Tutti i suoi amici erano lontani e lei doveva stare in campagna, dove il massimo del divertimento era giocare a carte col nonno. E poi le toccava sorbirsi tutti i rimproveri della nonna: “non fare questo”, “stai attenta a quello”… quasi non vedeva l’ora che iniziasse la scuola. Quasi.

Nerino si mise a leccarsi il pelo e Alice si guardò attorno per cercare qualcosa da fare. Prima osservò un’ape e contò le volte che si posava e allontanava dai fiori. Si stufò presto. Quindi tentò di arrampicarsi su un albero per osservare il nido di un uccellino, ma le scivolò un piede e per poco non finì a terra con le gambe all’aria. Sbadigliò e tese le braccia per stiracchiarsi, guardandosi intorno per assicurarsi che la nonna non l’avesse vista. Ma non c’era nessuno intorno a parte Nerino. Era ancora intento a farsi la toilette quando un abbaiare assordante gli fece rizzare il pelo. Emise un lamento stridulo e schizzò via come un fulmine, tallonato da una palletta beige non più grande di un ratto.

«Milo, vieni qui! Lascia stare Nerino!» gridò Alice correndo a sua volta dietro al cane.

Con pochi balzi, il gatto si arrampicò sul tetto della vecchia rimessa, che stava addossata allo steccato di confine con i vicini. Il cane rimase a terra, abbaiando con dei versi che sembravano più che altro colpi di tosse. Alice lo afferrò con entrambe le mani.

«Brutta bestiaccia! Ma perché i tuoi padroni non ti tengono legato al guinzaglio?» Lo alzò di peso e si allontanò dalla rimessa. Non servì a farlo smettere di abbaiare, così superò lo steccato che delimitava il giardino dei nonni e si allontanò in direzione del bosco, che si estendeva poche decine di metri più avanti.

«Ecco» disse infine posandolo a terra. «Adesso vedi di darti una calmata. Non puoi continuare a terrorizzare il nostro gatto».

La bestiola emise ancora qualche ringhio sommesso, poi si calmò e si mise ad annusare il terreno con interesse. Alice guardò il limitare del bosco. D’accordo, la nonna le aveva proibito di andarci, ma era l’unico posto nei paraggi che fosse un po’ interessante. E voleva vedere le fate. Sapeva che c’erano, anche se è molto difficile riuscire a scovarle. Aveva comunque più probabilità di trovare una fata che di imbattersi in un Ortecan. Sospirò, scrollò le spalle e si addentrò tra i fusti del bosco, saltellando. Saltellava sempre quando si sentiva soddisfatta di una sua decisione.

«Lo senti l’odore di qualche fatina?» chiese rivolta al cagnolino, che la seguiva continuando ad annusare tutto ciò che gli capitasse a portata di muso. «Non ne ho mai vista una, sai? La mia solita sfortuna».

Si addentrò ancora di più nel bosco. Non era mica la prima volta! E non si era mai persa. Scrutò il terreno in cerca di sassi posizionati in cerchio, perché le avevano detto che quello era un segno lasciato dalle fate. In realtà, Alice dubitava di questa diceria e si era sempre chiesta perché mai le fate avrebbero messo un segno così evidente della loro presenza, se non volevano essere trovate.

A un tratto il cane si fermò e ringhiò verso una radice che giaceva a terra. Abbaiò, ma senza il coraggio di avvicinarsi.

La bambina si accovacciò. La radice non era collegata a nessun albero; stava là a giacere sul terriccio, come se qualcuno l’avesse strappata e gettata via. La prese tra le mani: sembrava una grossa patata deforme, con dei rametti spelacchiati che si estendevano a mo’ di braccia e gambe. L’estremità superiore era stretta, mentre quella inferiore si allargava leggermente e aveva un rigonfiamento che poteva sembrare una pancia piena, come quella del nonno dopo una grande mangiata. D’un tratto, nella parte superiore si aprirono due occhietti neri e profondi. Dapprima rotearono per guardarsi intorno, poi si misero a fissarla. Alice sobbalzò. Poi si accorse che la radice aveva anche una boccuccia che rivolse gli angoli all’insù, come in un timido sorriso.

A modo suo, era la cosa più carina che Alice avesse mai visto. Stramba, ma carina.

La radice emise un verso che doveva essere una specie di vagito, poi agitò i rametti all’aria, come un neonato che muove i braccini.

«Sei un amore di cucciolo!» esclamò la bambina. «Devi essere una piccola mandragola, non è vero?»

La radice rispose con un gn!gn!gn!

Nel frattempo, Milo continuava ad abbaiare in direzione della radice e a un certo punto prese perfino a saltellare come fosse in preda a una crisi isterica.

«Oh, sta zitto tu!» ordinò Alice. Poi, rivolta alla radice: «sai che ti dico? Ti porto a casa con me. Se sei qui da sola è perché la tua mamma ti ha abbandonato e sei troppo piccola per sopravvivere senza qualcuno che si prenda cura di te. Del resto, se la nonna ha Nerino e la vicina tiene questo sgorbio, perché non dovrei avere anch’io un cucciolo tutto mio?»

Accarezzò la “testolina” della radice e quella le sorrise contenta.

«Devi avere molta fame, vero?» Avvicinò l’indice alla boccuccia, come aveva visto fare con i neonati.

La radice le succhiò il dito, quando a un tratto «AHIA!» gridò Alice ritraendolo velocemente. Il polpastrello era sporco di sangue.

«Piccola mandragolina, dovrai imparare un po’ di educazione» disse e si succhiò il dito per ripulirlo.

La radice sorrise di nuovo e dalla bocca un dentino affilato fece bella mostra di sé.

Tornata al giardino, Alice trovò il nonno intento a lavorare alla rimessa nuova. Stava aggrappato a una scala a pioli e martellava i chiodi nel legno robusto, tenendo serrati fra i denti quelli che gli sarebbero serviti via via che procedeva col lavoro. Si accorse di Alice quando si fermò per asciugarsi il sudore dalla fronte e la salutò con un gesto della mano. Lei gli rispose tenendo la mandragola ben nascosta dietro la schiena; se avessero scoperto che era stata nel bosco, la nonna non l’avrebbe più fatta uscire di casa fino alla fine delle vacanze.

Con aria indifferente, si diresse verso la vecchia rimessa. Il legno della porta era gonfio e deformato, tanto da non riuscire più a chiudersi. Nell’angolo in basso rimaneva aperto uno spiraglio così ampio che ci sarebbe potuta passare una pantegana grossa quanto Nerino. Questo, almeno, era quello che le aveva detto la nonna, nella speranza che Alice ne rimanesse alla larga. Illusa. Comunque tanto meglio: probabilmente non le sarebbe venuto in mente di cercarla lì.

Alice spinse con tutto il corpo la porta e i cardini malandati protestarono con un cigolio. Accese la lampada a batterie che pendeva dal soffitto e richiuse la porta dietro di sé lasciando fuori Milo, che tanto per cambiare, stava abbaiando di nuovo.

Si diresse verso il tavolo che stava addossato alla parete di fianco alla porta e da sotto di esso spostò un telo che nascondeva delle cianfrusaglie accatastate l’una sopra l’altra. Fra queste c’era un vaso abbastanza grande, ancora pieno di terra. La nonna lo teneva lì in attesa di interrare delle piante da tenere in casa durante l’inverno.

Trascinò a fatica il vaso al centro del pavimento e interrò alla bell’e meglio la sua radice.

«Ecco» si scostò una ciocca di capelli dalla fronte sudata e appiccicaticcia, «adesso dovresti stare bene».

La radice non protestò, quindi Alice rimirò il suo lavoro soddisfatta.

«Ora sarà meglio che ti cerchi qualcosa da mangiare. Cosa mangiano i cuccioli di mandragola?»

La radice si limitò a guardarla inclinandosi su un lato.

«Boh, penserò a qualcosa. Stai tranquilla, Mandy. Torno subito».

Uscì dalla rimessa e con ancora più fatica cercò di richiudere la porta tutta sbilenca. Mentre si complimentava per il suo duro lavoro e per la trovata di chiamare la mandragola col nome Mandy (ma come le venivano certe idee?), si diresse in cucina. Aprì e richiuse più volte lo sportello del frigorifero e della dispensa, indecisa su cosa prendere. Di certo le mandragole non mangiano pane, né merendine, né tanto meno frutta o verdura. Aprì di nuovo lo sportello del frigorifero e rimase ferma a pensare, scrutando gli scompartimenti con sguardo attento. Il tempo era scandito dai colpi di martello del nonno che entravano dalla finestra aperta.

Poi il suo sguardo cadde sulla confezione del latte.

«Ma sì» disse tra sé, «del resto, tutti i cuccioli bevono il latte, no?»

Prese il brick e rovesciò un po’ del suo contenuto in un bicchiere.

«Fai merenda a quest’ora?» chiese la nonna, sbucata dal nulla.

Alice sussultò.

«No… ehm… mi è solo venuta voglia di… rinfrescarmi un po’» prese il bicchiere e camminò fuori a passo svelto.

Quando tornò alla rimessa, la bambina si guardò intorno. Nessuno l’aveva seguita, né sembrava che occhi indiscreti stessero osservando i suoi spostamenti. Perfino di Milo non c’era più traccia. Entrò e si richiuse subito dentro.

«Ecco, Mandy, ti ho portato la merenda».

Si voltò e rimirò di nuovo la sua mandragola. Era una sua impressione o Mandy era… cresciuta? Anche se di pochi centimetri, ora appariva più alta e i rametti si erano decisamente irrobustiti. Da terra, una piccola ma netta striscia di sangue risaliva su per il vaso. Alice posò il bicchiere e si avvicinò per guardare meglio. Gli occhietti della mandragola sembravano spenti e il suo “pancino” era decisamente più gonfio di prima. La radice sussultò un paio di volte e dalla bocca le uscirono rumori simili a ruttini.

«Non hai per niente una bella cera, Mandy. Che hai combinato?»

La radice emise dei lamenti, poi fu scossa da tremolii, infine spalancò la bocca e vomitò un grumo di carne masticata mischiata a ossicini e peli beige. Il vomito rotolò giù dal bordo del vaso, fin sul pavimento e per poco non sporcò la gonna di Alice, che si spostò appena in tempo.

«Quello… era Milo, vero?» indicò il mucchietto di carne mista a sangue.

La radice portò un rametto alla bocca e si sporse in avanti per guardare il suo pasto rigurgitato. Poi guardò Alice con occhietti tristi.

«Mandy, non si fa! Non si mangiano i cagnolini altrui. Guarda che macello!» la bambina si mise le mani nei capelli.

Si guardò intorno per cercare qualcosa con cui pulire. Trovò una scopa di saggina e una paletta e raccolse velocemente quello che fino a pochi minuti prima era stato il povero Milo.

Speriamo almeno che Mandy si riprenda” pensò “se stesse male dovrei chiamare un veterinario o un erborista?”

Prese da una mensola una vecchia scatola di biscotti, rovesciò in un angolo le viti e i bulloni arrugginiti che stavano al suo interno e vi gettò dentro il cadavere. La richiuse e la ripose dove l’aveva presa.

«Mandy, io devo andare, è ora di cena. Anche se sinceramente mi hai fatto perdere l’appetito. Tu… be’, hai già mangiato per stasera. Ci vediamo domani mattina. Mi raccomando, non combinare altri guai».

La radice la guardò con un faccino preoccupato.

Alice se ne accorse e per consolarla le fece una carezza che Mandy ricompensò con un sorrisetto.

«A domani, piccolina».

Il giorno successivo, Alice aspettò il momento propizio per andare in salotto senza essere vista. La grande libreria traboccava di enciclopedie e volumi vari, dalla copertina in simil pelle. Mai avrebbe pensato che uno di quei tomi le sarebbe potuto tornare utile. Finalmente trovò quello che sembrava il libro più adatto: Vegetali di tutte le foreste: come riconoscerli, curarli e rimanere incolumi. Scrutò la finestra e la porta del salotto, per assicurarsi che nessuno la stesse guardando. Aprì la copertina del tomo e sfogliò le pagine fino alla lettera M.

«Ma… Mac… Mal… Mandragola, ecco» disse sottovoce. Si mise a leggere, ma nulla di quello che era riportato sul libro corrispondeva alla sua Mandy. Forse aveva sbagliato a valutarla. Senza troppa convinzione, sfogliò le pagine del libro cercando un’immagine che potesse assomigliare al cucciolo di radice. Stava per rinunciare, quando qualcosa colpì la sua attenzione.

«Ortecan» lesse sottovoce, seguendo la lettura con l’indice. «Appartenente alla famiglia dei vegetali carnivori. Nel suo aspetto primordiale somiglia molto alla mandragola. In questo stato è relativamente innocuo, in quanto in grado di cibarsi solo di prede di piccole dimensioni quali insetti o vermi. È tuttavia sufficiente una piccola goccia di sangue per svegliarne la natura carnivora. Dopodiché, può arrivare a cibarsi di piccoli mammiferi, che attrae servendosi di speciali ghiandole odorifere. La dimensione dell’Ortecan aumenta in relazione al numero di prede di cui riesce a cibarsi, arrivando ad assumere la forma di un albero possente».

Al lato della pagina si trovava l’immagine di un albero dal tronco largo quasi quanto la rimessa dei nonni. La sua superficie era irregolare a causa di rigonfiamenti della corteccia simili a grossi foruncoli marroni. La parte superiore, che doveva essere la testa e dove quindi doveva esserci la bocca, si apriva in una sorta di voragine circondata da denti appuntiti.

«Se non può cibarsi di mammiferi, l’Ortecan rimpicciolisce e riprende il suo aspetto primordiale. Bla, bla, bla… l’unico modo per fermarlo o addirittura distruggerlo, è quello di versargli addosso dell’aceto. Bla, bla, bla… l’Ortecan è una specie rara e protetta. Questo significa che se doveste venire azzannati e l’Ortecan dovesse sentirsi male, ne rispondereste alla legge, secondo l’articolo….».

Dalla cucina si udì la voce della nonna. Alice richiuse il libro e lo ripose velocemente sullo scaffale, poi, fingendo aria indifferente, si recò in giardino.

Dall’altro lato dello steccato, la vicina stava chiamando il suo cagnetto.

«Milo! Miluccio caro, dove sei?»

Alice finse di non sentire e si richiuse dentro la rimessa, dove la radice la accolse sorridendo e agitando i rami tutta contenta.

«Dunque sei un Ortecan» disse Alice. Provò a immaginare come la sua creatura sarebbe potuta apparire una volta cresciuta. Ma era così piccola e carina, ora, che sembrava impossibile potesse divenire spaventosa come quella nella foto. «Non sei che un piccolo, dispettoso Ortecan. Non sembri tanto pericoloso».

Gli occhietti vispi della creatura la fissarono incuriositi.

«Per il momento sei ancora piccolo, posso tenerti ancora un po’. Però devi promettermi che non mangerai altri animali. Mi dispiace, Orty, ma non posso darti altro cibo, dovrai rimanere a digiuno».

L’Ortecan emise dei lamenti.

«Niente da fare. Non posso rischiare che tu cresca troppo e combini altri guai. Credimi, è per il tuo bene».

Quella sera, prima di andare a cena, Alice diede la buonanotte a Orty e chiuse la porta della rimessa. Cenò a cuor leggero e andò a letto, eccitata all’idea di rivedere presto il suo cucciolo.

Nel cuore della notte si svegliò di soprassalto. Era stato il grido stridulo di un gatto quello che aveva sentito? O il suono di un violino che veniva torturato? Stette per qualche secondo senza respirare, cercando di udire il più piccolo rumore, nel caso i nonni si fossero svegliati. Niente. Solo il russare regolare del nonno che proveniva dall’altra stanza. Alice sospirò, ma il suo animo non era affatto tranquillo; aveva la netta sensazione che anche Nerino avesse fatto una brutta fine.

Per tutta la notte non riuscì più a chiudere occhio. La mattina dopo, di buon’ora, era già alzata e vestita. Dopo la colazione corse in giardino e si richiuse nella rimessa, dove i suoi timori trovarono triste fondamento: il povero Nerino aveva tirato le cuoia. Se non altro, questa volta Orty si era preso la briga di spellare e disossare la sua preda, prima di divorarla. Infatti il suo viso aveva un’espressione beata e sembrava essersi goduto appieno il suo pasto.

«Orty!» esclamò Alice con voce sommessa, nel timore di attirare l’attenzione di qualcuno. «Ti avevo detto di non mangiare altri animali».

L’Ortecan roteò gli occhi verso l’alto fingendo indifferenza. Ai piedi del suo vaso, in una pozza di sangue, giacevano i resti del gatto. La pelle floscia stava distesa come un macabro tappetino di pelo. Esclusa la testa, rotolata un po’ più in là, lo scheletro era ancora intatto, come quello del tirannosauro esposto al museo della scienza, ma molto più piccolo. Con una pedata, Alice lo schiacciò. Gli ossicini scricchiolarono e si spezzarono sotto la suola. Prese di nuovo scopa e paletta, raccolse i resti e chiuse anche quelli nella scatola di biscotti, dove giaceva ancora ciò che rimaneva di Milo. Guardò a terra, chiedendosi come avrebbe fatto a pulire tutto quel sangue.

«Questa volta l’hai fatta grossa. Se la nonna scopre cos’hai fatto al suo gatto, ci strozza tutti e due».

L’Ortecan le rivolse uno sguardo triste. Poi le sorrise.

«Inutile che cerchi di intenerirmi, questa volta non ci casco. Meriti di essere messo in castigo» disse. Ma più lo guardava, più si rendeva conto che questa volta il suo sorriso era diverso; in qualche modo aveva perso la sua innocenza e ora sembrava malizioso, quasi sinistro. Alice cercò di non badarvi. Uscì a grandi passi dalla rimessa e chiuse bene la porta. In giardino trovò la nonna intenta a parlare con la vicina.

«Sa, anch’io stamattina non riesco a trovare il mio Nerino».

Alice sussultò.

«Guardi sono così preoccupata» rispose la vicina dall’altro lato dello steccato, «il mio Milo non è mai stato lontano da casa così a lungo».

«Ma sì, signora, vedrà che non è successo niente» disse la nonna. «Oh, ecco mia nipote; Alice, per caso stamattina hai visto Nerino o Milo in giro?»

La bambina finse di guardarsi attorno, più che altro per evitare lo sguardo sospettoso della vicina.

«No, nonna, mi dispiace».

«Be’, non importa. Vedrà signora che torneranno presto. Magari adesso si trovano da qualche parte insieme»

«Sì,» rispose Alice pensando alla scatola di biscotti «sono sicura che è così».

Rientrando in casa, la bambina si guardò indietro per assicurarsi che la nonna stesse ancora chiacchierando con la vicina e il nonno fosse preso dai suoi lavori alla nuova rimessa.
Quatta, quatta, andò in cucina, cercò la bottiglia dell’aceto e ne riempì un bicchiere fino all’orlo. Poi lo nascose sotto un tovagliolo e tornò fuori. Quando rientrò nella rimessa, mostrò il bicchiere all’Ortecan.

«Lo vedi questo? È aceto. Se non fai il bravo sarò costretta a versartene un po’ addosso. Mi dispiace, ma mi hai costretto tu a passare alle minacce».

Posò il bicchiere sul tavolo e guardò la creatura con la coda dell’occhio; era cresciuta ancora di un manciata di centimetri e ora iniziava davvero ad assomigliare a un tronco. I rami che fungevano da braccia erano più lunghi e robusti e sicuramente stavano diventando anche più forti.

Sospirò e si augurò che questa volta il cucciolo non potesse trovare altre prede. «Fai il bravo e fai in modo di non costringermi mai ad usarlo, Orty. Va bene?»

La creatura emise dei lamenti e contorse la bocca in un broncio.

Dopo pranzo, i nonni informarono Alice di voler andare in paese e le chiesero se volesse andare con loro. Alice pensò subito che fosse l’occasione per mettere in riga Orty e farlo tornare normale. Così finse di non avere voglia di uscire e chiese se le fosse possibile rimanere a giocare in giardino.

«Va bene» rispose la nonna. «Vorrà dire che chiederò alla signora Marpett di darti un’occhiata».

Alice non obiettò: quella rompiscatole era ancora impegnata a cercare il suo cane. Non le avrebbe dato troppa attenzione.

Quando i nonni finalmente uscirono, Alice tornò di corsa nella rimessa. Aprì la porta e si trovò di fronte un Ortecan ancora più cresciuto. Ora i suoi rami sembravano possenti e flessibili come i tentacoli di una piovra. Quelli seppelliti nella terra dovevano essere diventati così grandi, da non sopportare di rimanere chiusi nel vaso ancora a lungo.

«Per la miseria, Orty! Sei troppo grosso, se continui a crescere non potrò più tenerti con me. Vedi di ritornare com’eri prima. Eri così carino!»

La creatura la guardò sottecchi, poi avvicinò l’estremità di uno dei rami davanti alla bocca aperta, come a voler chiedere di portargli da mangiare.

«No! Niente pappa. Se continui a mangiare, cresci ancora e poi non so più dove metterti».

Alice scosse la testa e girò sui tacchi. «Sei così cocciuto».

Mosse un passo verso l’uscita, ma qualcosa le afferrò la caviglia. Guardò in basso. Un ramo le si stava attorcigliando attorno, stringendo sempre più forte.

«Orty, lasciami andare, per favore».

Allungò la mano verso il bicchiere colmo di aceto, ma il ramo la strattonò di colpo con una forza tale da farla cadere carponi. Alice riuscì appena a toccare il bordo del bicchiere, che cadde a terra rovesciando tutto il liquido. L’Ortecan la tirò a sé, uno strattone alla volta.

La bambina urlò e si dimenò. Intinse il palmo della mano nella pozza di aceto sparsa sul pavimento, si voltò, alzò il busto quel tanto da poter arrivare alla caviglia e strinse il ramo con tutte le sue forze. Dalla corteccia si sprigionarono delle nuvolette di fumo. Alice la sentì sbriciolarsi sotto le sue mani. L’Ortecan emise un grido stridulo e mollò di colpo la presa. La bambina ne approfittò per alzarsi e corse fuori.

Si fermò per riprendere fiato solo quando raggiunse la cucina. Ma il suo riposo non durò a lungo; aprì lo sportello della dispensa e prese l’intera bottiglia di aceto. La fissò e tirò su col naso.

«Mi dispiace, Orty» pensò ad alta voce, «non mi lasci altra scelta».

Stava per uscire, quando dalla finestra irruppe il grido di un uomo. Alice guardò fuori. Sulla strada, una bicicletta giaceva a terra, mentre il postino veniva trascinato per il polpaccio da un ramo.

Orty doveva aver rotto il vaso; solo così i suoi rami-tentacoli potevano aver raggiunto una tale distanza. Non c’era tempo da perdere. Alice corse fuori dalla cucina e si diresse di nuovo verso la rimessa, ma la creatura stava già uscendo. Con le radici strisciava sul pavimento, lasciando dietro di sé una scia di terriccio umido e rossastro. Il tronco era cresciuto ancora. La bocca, una voragine circondata da denti, simile a una tagliola, avrebbe potuto divorare il postino masticando un arto dopo l’altro come fossero cosce di pollo.

L’uomo stava opponendo resistenza. Si era afferrato a una tavola dello steccato e gridava e scalciava nel tentativo di liberasi dalla morsa. Alice prese un profondo sospiro e versò un po’ di aceto sul ramo, poi svuotò il resto del contenuto della bottiglia addosso al tronco dell’Ortecan. La creatura mollò di colpo la presa e lanciò un urlo che suonò come un coro di gatti chiusi in un baule. Agitò i rami sempre più violentemente, mentre la corteccia sfrigolava e fumava, come se stesse per prendere fuoco.

Nel frattempo, in lontananza, il suono distinto di una sirena della polizia si faceva sempre più vicina. Orty emise altre urla di dolore, poi cadde a terra. I suoi rami si immobilizzarono ed esso non si mosse più.

Quando i nonni tornarono a casa, non poterono credere ai loro occhi: parte dello steccato era stata quasi sradicata, l’aria era impregnata di un odore di legna bruciata e una creatura enorme, disgustosa e morta giaceva nel loro giardino. Un poliziotto aveva appena terminato di raccogliere la testimonianza del postino, mentre il suo collega li multò per detenzione non autorizzata di Ortecan.

Il postino inveì contro di loro informandoli che li avrebbe citati in giudizio per danni morali. Lo stesso fece la vicina, oltre a chiedere un cospicuo risarcimento per la morte del suo cane. Si rivolse verso Alice minacciandola col pugno.

«Ho avvisato io la polizia, quando ti ho sentita gridare. Sospettavo da tempo di te, piccola canaglia. Ero certa che tu c’entrassi qualcosa con la morte del mio Milo».

Rimasta senza parole, la nonna sospirò. Poi guardò la nipote, alzando un sopracciglio.

Alice tirò su col naso e si strinse nelle spalle.

«Ma non è stata tutta colpa mia» mugugnò.

Fine

Disclaimer:

Nessun cane, gatto, Ortecan o postino è stato maltrattato durante la realizzazione di questo racconto. Per quanto riguarda il sedere di Alice, non è possibile garantire altrettanto.

***

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Ricordo a tutti che l’autore più gradito potrà pubblicare un’intervista, perciò se vi è piaciuto il racconto condividetelo, commentatelo e lasciate un “mi piace”!

“Tre racconti per…” è una rubrica bi – mensile. Continuate a lavorare sui vostri progetti e vi terrò informati non appena apriranno le selezioni ottobre!

A presto,

Gloria

5 risposte a “Tre racconti per… – L’Ortecan di Chris Morand”

  1. assolutamente coinvolgente, ritmo incalzante, descrizioni precise e d’effetto, niente da aggiungere o da togliere, essenzialmente geniale: mi è piaciuto tantissimo, compresa la nota oltre il finale…i miei più sinceri complimenti

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