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“La colpa nei tuoi occhi”
di Valentina Contarino
Editing di Paola Dama
Lo fai solo perché non vuoi che ti rimanga sulla coscienza.
Il disprezzo che quel giorno vidi nei suoi occhi verdi è un ricordo che non dimenticherò mai. Il mio respiro era affannoso per la corsa che avevo fatto su per le scale. Il grigiore del cielo permeava ogni cosa: alberi, case, marciapiedi, auto, persone, vite. Quell’atmosfera cupa di inizio autunno penetrava fin dentro le mie ossa, e da quel giorno non se ne sarebbe più andata.
Io e Viviano eravamo diventati migliori amici da meno di un anno, dopo un lungo periodo passato quasi a ignorarci. La prima volta che lo vidi avevo dieci anni e andavo alle elementari, mentre lui frequentava la seconda media. Ci incrociavamo per i corridoi dell’istituto, senza che tra noi ci fosse mai alcun contatto. Poi lui finì le medie e non lo incontrai più, se non anni dopo, quando, ormai alle scuole superiori, iniziai a frequentare un lido durante l’estate.
Non eravamo molto affiatati all’epoca. Ci conoscevamo solo in maniera superficiale, alcune volte giocavamo a beach volley insieme e altre uscivamo con degli amici in comune. Lui sembrava essere amato da tutti, era l’amico simpatico che cercava sempre di far ridere gli altri con una battuta. Spesso era il suo umore, sia quello sereno che quello inquieto, a determinare l’atmosfera del gruppo. Era un punto di riferimento e tutti parlavano bene di lui, descrivendolo come un amico leale, sincero e divertente. A volte, però, notavo che oltre al suo desiderio di stare con gli altri ci fosse anche la voglia di defilarsi e rimanere da solo, come se volesse farci sperimentare la sua assenza. Quando non c’era, infatti, tutti lo cercavano.
Sembrava perfetto e nessuno avrebbe potuto dire che non lo fosse.
Cominciammo ad avvicinarci durante l’estate dei miei diciassette anni. Bastò dimostrare un lieve interesse per la sua vita e le sue emozioni per farlo aprire. Una sera, mentre tutti stavano tornando a casa dopo l’ennesima giornata di mare, io e lui ci ritrovammo da soli. Iniziammo a parlare come non avevamo mai fatto e, per quanto lui non fosse una persona che parlava spesso di sé, mi raccontò vari aspetti della sua vita privata. Mi confidò anche di star frequentando una ragazza e mi chiese dei consigli. Da quel momento, il nostro rapporto divenne più profondo.
Quando, durante l’inverno, io e il mio ragazzo ci lasciammo, attraversai un periodo in cui mi sentii fragile. Lui fu così premuroso con me, che iniziai a fidarmi. Era l’unico nel nostro gruppo che sembrava interessato a sapere come mi sentissi. Iniziammo a scriverci sempre più spesso e diventammo migliori amici.
Allora mi sembrava stupendo. Avevo trovato una persona per la quale mi sentivo importante, che mi faceva sentire come se potessi tornare a fidarmi di qualcuno, anche dopo tutte le delusioni subite. Ognuno si immerse nel passato dell’altro. Mi raccontò che anche lui aveva problemi di fiducia e che ne aveva sofferto molto. Mi parlò dei suoi mostri, delle sue paure, delle sue ambizioni, dei suoi sogni, dei suoi ricordi più preziosi, dei suoi momenti felici o disperati. Imparai a volergli bene. Non mi ero mai sentita tanto vicina a qualcuno senza avere la paura che tutto finisse. Di solito, infatti, quando mi trovavo a vivere qualcosa di bello temevo non durasse per sempre. Ero certa che anche il mio rapporto con lui non sarebbe durato, ma, per una volta, non mi importava.
Anch’io mi aprii con lui. Gli raccontai di quanto alcuni eventi del passato mi avessero segnata, lasciandomi la sensazione di sentirmi sbagliata, incompresa e in difetto rispetto agli altri. Con timore, gli parlai della mia paura dell’abbandono e di essere esclusa dalle persone che amavo, e lui parve comprendermi, così come parve capire la sconfitta che provavo ogni volta in cui gli eventi sfuggivano dal mio controllo. Ci capimmo a vicenda, accettandoci per quello che eravamo. Passavamo le notti al telefono e le serate a guardare film. Condividevamo la passione per la lettura e per gli anime, e avevamo tanti progetti. Sognavamo di andare in Giappone insieme non appena ne avessimo avuta la possibilità e, intanto, trascorrevamo insieme tutto il tempo possibile. Io ci sarei stata per lui e lui per me. Stava andando tutto bene, e fu così finché non mi accorsi che lui, il mio amico perfetto, fosse in realtà una persona pericolosa.
Iniziò ad avere frequenti sbalzi di umore. Un attimo prima era tranquillo, quello dopo pieno di rabbia. Cominciammo a discutere spesso. Lui divenne geloso del mio ex ragazzo, così come di uno sconosciuto qualsiasi incontrato in discoteca, del quale io neanche ricordavo il volto. Mi tormentò perfino per un amico in comune che, secondo lui, era interessato a me. Litigavamo, e i suoi attacchi d’ira lo rendevano un’altra persona. Ogni lite era sempre più violenta, e le colpe che mi attribuiva sempre più assurde.
«Credi che non sappia quali siano le tue vere intenzioni?» mi aveva chiesto una sera al telefono, furioso.
«Vi, di cosa stai parlando?»
«So benissimo che vuoi far ingelosire il tuo ex» urlò, «sono il tuo cagnolino, non è vero? Sono solo questo per te! Vuoi solo usarmi!»
«Quello che dici non ha alcun senso!» ribattei.
«Invece sì, sono il tuo cane» ripeté, «fai un fischio quando hai bisogno e io corro da te. Sei così stupida da pensare che non lo avrei capito?»
«Come fai a dire una cosa del genere?» alzai la voce, ferita dalle sue parole.
«Sei diventata mia amica solo per far ingelosire lui, per farlo tornare da te! Fai schifo, Ida, se credi di potermi usare a tuo piacimento.»
Non aveva alcuna ragione per muovermi un’accusa del genere: io e il mio ex, infatti, non ci sentivamo da parecchi mesi, e non volevo neanche che tornasse a esserci qualcosa tra noi. Per porre fine a quel discorso senza senso, decisi di chiudere la telefonata e di spegnere il cellulare. Quando lo riaccesi, mi arrivarono un numero indefinito di notifiche, tra chiamate perse e messaggi vocali. In questi ultimi mi chiedeva scusa, piangendo in modo esagerato, imprecando contro se stesso perché pensava di non meritarsi niente dalla vita e per la paura che aveva di perdermi. Il suo tormento era così inconsolabile che il senso di colpa per essermi arrabbiata con lui sovrastò la mia rabbia. Alla fine, fui io a chiedere perdono per aver frainteso le sue parole.
Da quel giorno un meccanismo pericoloso si insediò nella mia testa. Credevo che ogni mossa sbagliata lo avrebbe fatto soffrire, quindi cercai di stare più attenta alle mie parole e alle mie azioni. Non volevo che i suoi scatti d’ira diventassero ancora più frequenti. Gli stavo permettendo di entrare nella mia testa e di manipolarmi, ma allora non me ne rendevo conto.
Mi faceva sentire in colpa per tutto. Quando, davvero, ricominciai a sentire il mio ex ragazzo, Viviano fece di tutto per farmi credere di star facendo la scelta sbagliata e, ancora una volta, io mi sentii in colpa. Mi sentivo così anche quando mi capitava di bere alle uscite con il gruppo o di avere delle avventure con qualche ragazzo. Perché, a suo dire, era da ragazze facili e non dovevo diventare così. E più compivo azioni che a lui non piacevano, più mi sentivo responsabile del suo stato d’animo. Peggiore era la lite, più lui si trasformava nella vittima, perciò, spinta dalla pena, chinavo la testa io.
Erano davvero pochi i momenti in cui non litigavamo, e stare al suo fianco non mi rendeva più felice. C’era qualcosa di malato nel suo sguardo quando era arrabbiato, così come nella sua voce che tremava per l’agitazione.
Nell’estate dei miei diciotto anni ebbi un appuntamento con un ragazzo. Fu allora che Viviano, colmo di gelosia, mi disse di essere sempre stato innamorato di me e di non essersi mai dichiarato per evitare di doversi allontanare, nel caso in cui lo avessi rifiutato. Aveva deciso di non confessarmi niente perché non voleva che mi sentissi abbandonata come in passato, perché lui mi aveva promesso di restare. Mi armai di coraggio e posi fine alla nostra amicizia. Fu difficile e doloroso. Mi ero aggrappata a lui e gli avevo donato la mia fiducia, ma mi sentivo tradita. Aveva sempre avuto un secondo fine. Quando il suo tentativo di conquistarmi era fallito, aveva iniziato a manipolarmi. Non fu facile trovare la forza necessaria per allontanarmi da lui, ma fu l’unico modo per uscirne meno ferita di quanto già fossi.
Capii cosa significasse avere accanto una persona tossica. Era come se fossi paralizzata e tenuta in scacco. La mia volontà, la mia visione della realtà, tutto era compromesso. In primo piano c’erano solo il mio manipolatore e i suoi bisogni. Credevo fosse affetto, ma non lo era.
Lui, però, non se ne andò mai del tutto. I nostri amici mi dissero che aveva cominciato a bere e a fumare erba. A settembre seppi che aveva iniziato ad andare da uno psicologo, il quale si aggiunse all’elenco di persone che gli sconsigliarono quelle condotte distruttive, ma anche in questo caso se ne fregò. Trattava male tutti i suoi amici e, chiuso in se stesso, passava i pomeriggi a fumare. Mi sentivo responsabile, ancora una volta, di tutto ciò che lo riguardava.
Così, una sera, gli telefonai. Ancora non sapevo quanto quel momento avrebbe cambiato la mia vita.
«Pronto?» la sua voce era roca e biascicata, come se parlare gli costasse uno sforzo enorme.
«Ciao, Viviano» gli risposi. Percepii dal suo forte sospiro che non aveva voglia di parlare con me.
«Cosa vuoi?» chiese in modo brusco.
«Hai iniziato a fumare?»
Lo sentii ridere, con tono di scherno. «Adesso ti preoccupi per me?» Mi accorsi che il suo tono di voce era cambiato mentre pronunciava quell’adesso, che lo stava accentuando, ma decisi di non rispondergli.
«Non evitare la mia domanda.»
«Non evitarla tu» disse lui. «D’altronde, cosa te ne frega? Tanto, come hai detto tu, sono solo un bugiardo. Anche se te lo dicessi, non mi crederesti».
Ignorai, ancora, la sua provocazione. «Perché stai allontanando tutti?»
Non rispose subito. «È meglio così. Vi faccio solo un favore» disse, serio.
«Quindi ti stai facendo odiare da tutti di proposito. Viviano, non ha senso, lo sai, vero?» gli dissi, cominciando a camminare su e giù per la mia stanza, decisa a capire ciò che stesse cercando di dire.
«Forse no. Per ora.» Rabbrividii a quelle parole.
«Sai cosa devi fare ora? Buttare tutta quella merda che hai iniziato a fumare, chiedere scusa a chi hai trattato male e riprenderti.»
Rise di nuovo, schernendomi. «Io chiedere scusa? No. Un giorno vi accorgerete di quanto vi abbia trattato di merda. E renderò ogni cosa più facile.»
Rabbrividii di nuovo. Un’ondata di paura mi attraversò la spina dorsale.
«Non posso credere che tu stia parlando sul serio, questa non può essere l’unica strada!»
«A breve vedremo.» Non sentii alcuna nota d’emozione nella sua voce.
«Per favore, smettila. Non puoi pensare di fare una cosa del genere.»
«Ida, odiami. Ti sarà più facile» disse, e chiuse la telefonata. Nel momento in cui sentii quanto peso avessero avuto quelle parole, dovetti tornare a sedermi sul letto. Il mio respiro si fece sempre più veloce. Tremante e con il petto che si contraeva per lo sforzo, presi la mia decisione e corsi fuori. Le mani continuavano a tremare mentre pedalavo più veloce che potessi verso casa sua.
Quando arrivai sotto il suo palazzo, tutti i miei dubbi iniziarono a prendere forma. Viviano era affacciato alla ringhiera del terrazzo. Abbandonai la bicicletta e salii in fretta le scale, fino all’ultimo piano. Aprii la porta dell’appartamento di Viviano che, com’era sua abitudine, aveva lasciato aperta. In casa non c’era nessuno. Lo chiamai. Cercai la portafinestra che si apriva sul terrazzo. Appena mi sentì, si girò. Il suo sguardo era vuoto e spento. Era salito sul cornicione.
Trasalii. Lentamente, andai verso di lui. Vederlo mi fece salire le lacrime agli occhi.
Viviano mi regalò un sorriso freddo. «Sei qui» disse. Io annuii, troppo impaurita per parlare.
«Questo, però, non cambia quello che hai fatto» sputò con rabbia. Quel suo sorriso scomparve in un attimo.
«Cosa ho fatto?» chiesi spaventata. Lui proruppe in una risata amara che non dimenticherò mai.
«A te non è mai importato nulla di me» disse. «Mi hai abbandonato, e non mi sembra che tu stia soffrendo. Varrà lo stesso per tutti quanti, Ida. I miei amici, la mia famiglia, tutti vivranno meglio senza di me!» esclamò.
«Se fosse vero non sarei qui, ora. Siamo preoccupati per te e vorremmo che tu non stessi male.»
«Ho perso tutto, mi spieghi cosa mi rimane? Devo continuare a preoccuparmi che sia tu a non soffrire, Ida?»
Feci qualche passo in avanti. «Viviano…» sussurrai, prima che lui mi interrompesse.
«Io non provo niente» disse. «È bellissimo. Non mi importa più niente, né di te, né di nessun altro. Voglio che mi odiate. Sarà più semplice per tutti, così.»
Si girò di nuovo verso il vuoto. Mi accorsi di stare ormai piangendo. «Ti prego» dissi in un singhiozzo. «Ti prego, Vi. Non farlo. Farai soffrire tutti quanti. Non è vero che viviamo meglio senza di te. Non essere codardo e affronta tutto questo. Sii coraggioso.»
«Mi vuoi fermare?» chiese stupito, come se non se lo aspettasse.
«Certo che voglio fermarti» risposi, avanzando ancora un po’ verso di lui. Per un secondo parve riflettere su tutta quella situazione, su quanto fosse assurda. Mi illusi, immaginandolo mentre scendeva dal cornicione e metteva fine a quell’idiozia, ma poi tornai a vedere un profondo rancore nei suoi occhi.
«Lo fai solo perché non vuoi che ti rimanga sulla coscienza» disse.
Fu come una pugnalata. Se in quel momento mi fossi buttata da quel terrazzo, sentendo tutte le mie ossa spezzarsi a contatto con l’asfalto, forse non avrei provato lo stesso dolore che invece erano riuscite a provocarmi quelle parole. Abbassai lo sguardo, attonita. Il senso di colpa stava ricominciando ad affiorare.
Era colpa mia? Se si fosse buttato, sarebbe stata colpa mia? Ero stata io, non ricambiando i suoi sentimenti, a portarlo fino a lì? Era colpa mia se si trovava su quel cornicione? Era colpa mia. Lo avevo abbandonato, era colpa mia.
«Non puoi dirmi così» risposi tra i singhiozzi.
«Ti sei sempre lamentata» mi interruppe lui, «perché in passato le persone ti hanno delusa, ti hanno esclusa, ti hanno abbandonata. “Oh, Vivi, nessuno mi capisce, nessuno resta!”» disse, facendomi il verso. «Pensavo fossi una vittima, ma non è così. Se le persone ti trattano in questo modo è solo per colpa tua! Sei tu quella sbagliata! Mi hai accusato di averti tenuto i miei sentimenti nascosti, di essere stato troppo geloso, di avere avuto reazioni esagerate. Ma tutto ciò accadeva perché tu porti le persone a trattarti così! Sei una fottuta stronza, un’immatura, non so cosa mi piacesse di te. Sei stata solo uno spreco di tempo. Il problema sei tu e lo sarai sempre. Tu mi hai portato a essere così!» disse, indicando se stesso.
Era davvero colpa mia.
I suoi occhi verdi, gelidi, mi paralizzavano ancora. Piangevo, scossa dai tremiti. La sua cattiveria mi stava consumando. Non riuscivo a smettere di ripetermi le sue parole, e il mio senso di colpa non faceva che aumentare.
Nonostante tutto, ignorai ciò che mi disse. Io volevo fermarlo.
«Per favore, ascoltami. Il suicidio è peggio di qualsiasi altra cosa» gli dissi, fissandolo negli occhi. «La morte non è la soluzione a niente. Non avresti più la possibilità di aggiustare le cose.» Mi avvicinai lentamente, lui sembrava concentrato sulle mie parole, così continuai: «Vivi, e potrai ricominciare da qualche parte. Fatti aiutare a uscire da questa spirale. Così non concludi niente, crei solo sofferenza a chi rimane. Non puoi arrenderti così.»
Ghignò. «E cosa dovrei fare? Nascondere tutto con un bel sorriso quando ormai c’è solo il vuoto? Chieditelo, Ida. Chieditelo perché c’è solo il vuoto.»
Feci un ultimo passo, lo raggiunsi e gli afferrai un braccio. Lo tirai verso di me, per farlo tornare sul terrazzo, ma lui iniziò a divincolarsi.
«Lasciami!» urlò.
«No!» gridai anch’io, disperata. «Scendi da lì! Risolveremo tutto, lo faremo insieme. Non ti abbandonerò più, ma ti prego, scendi da lì!»
Lui era troppo forte per me. Feci appena in tempo a finire di parlare, che mi spinse con l’altro braccio e si liberò dalla mia stretta.
Quel gesto, però, gli fece perdere l’equilibrio.
Sembrava che tutto andasse a rilento, come sospeso nel tempo. Mi affacciai dalla terrazza. Stesi il braccio verso di lui per poterlo prendere. Per non farlo precipitare di sotto. Ma ormai era troppo tardi. Tentai di afferrarlo per la spalla. Sentii la ruvidezza della sua felpa, ma la sfiorai soltanto, non la afferrai. Guardai Viviano negli occhi un’ultima volta.
E dentro quel verde, non vidi paura. Leggevo chiaramente ciò che esprimevano. La loro rabbia.
È colpa tua.
L’autrice
Sono nata a Catania e ho diciannove anni. Ho vissuto e vivo ancora a Catania, mi sono diplomata al liceo classico Nicola Spedalieri e ora sto iniziando il mio percorso all’università di Catania, alla facoltà di lettere moderne. Ho sempre amato scrivere e mi piace tutto ciò che a che fare con i libri, infatti sin da piccola tenevo un diario che usavo per scriverci storie, e leggevo in continuazione. Non che adesso abbia smesso di farlo. Leggere per me è sempre stato come vivere in tanti mondi diversi, mentre scrivere è l’unico modo in cui riesca ad esprimere me stessa.
IG: valentinacontarino
L’editor
Paola Dama. Per sette anni sono stata educatrice in una comunità mamma bambino, ma, dopo una lunga pausa dovuta a esigenze personali, ho capito che quel lavoro non era più quello giusto per me. Ho scelto quindi di tornare alle origini, sulla strada che non avevo mai osato seguire perché, mi dicevano, non avrebbe portato a niente. Che classico! Ho iniziato quindi la mia nuova formazione, seguendo prima un micro-laboratorio di editing e poi un percorso ben più corposo sull’editor freelance.
La mia visione del tanto citato mondo dell’editoria è disincantata, unicorni scintillanti non ne vedo. La vera meraviglia, per me, è dentro alle infinite storie che si possono scrivere e nelle emozioni che le parole, se scelte con attenzione e cura, possono suscitare.
IG: @laeditor_paola
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