Io faccio tutti i segni a matita: l’editor non è una ghigliottina. All’autore mi presento con la gomma in mano, pronta a cancellarli. Però avverto: peggio per te.
Grazia Cherchi, intervista per La Stampa, 23 ottobre 1994
Ultimamente, in giro per le lande del web, vedo tantissimi contenuti che sembrano voler terrorizzare le persone davvero intenzionate a intraprendere la strada di editor freelance, oppure che denigrano chi vuole iniziare, magari inciampando di qua e di là, sbagliando e imparando.
Da anni ormai cerco di portare la mia esperienza e metodo per far trovare, ad aspiranti editor, le proprie esperienze e metodi. Il che mi rende davvero felice, perché no, non è vero che non si può più imparare questo mestiere e no, non è vero che c’è solo un modo per farlo e no, non è vero che se fai l’editor non stai sui social e no, non è vero che puoi lavorare solo con i self.
Non è un mondo saturo o impossibile, e questo articolo (primo di una serie) dà il via alle danze su questa riflessione e tendenza.
C’è solo un modo per fare editing
… ed è il tuo.
Quando un’autrice, magari esordiente, mi contatta per un preventivo, la prima cosa che faccio, dopo la prova gratuita, è un colloquio conoscitivo. Durante il primo incontro, con le informazioni che ho ottenuto dalla prova, parlo di un “livello” di editing. «Facciamo un editing medio», «Credo che la tua storia abbia bisogno di un editing stilistico importante», «Lavoriamo con un editing leggero, in prima battuta». E questi “livelli” hanno nomi e sfumature diverse: editing contenutistico, di sviluppo, stilistico, leggero, medio, completo, di progettazione, strutturale, formale… le definizioni sono davvero infinite, e ognuno sceglie la propria.
Personalmente, parlo spesso di leggero, medio, pesante/complesso, e questo perché l’editing, se è editing, non si concentra mai solo su un aspetto, ma su tutti e quattro i pilastri narrativi (trama, personaggi, stile e atmosfera), e le sottocategorie che li riguardano (fabula & intreccio, livelli delle funzioni narrative, contenuto e coerenza, caratterizzazione, fraseggio, ambientazione, worldbuilding eccetera).
Dunque, affondiamo come in Battaglia Navale una delle cose che si sentono più spesso sbandierare con mancata autorevolezza: no, non esistono veri livelli di editing, esistono storie che peccano più di un elemento che di un altro e dunque hanno necessità di più attenzione su un elemento piuttosto che su un altro.
Perché, allora, si parla di livelli? Perché è la maniera più semplice per spiegare il grado di intervento che però, sempre, dipende dal romanzo in questione e da un’infinita serie di altri fattori che vanno anche al di là del romanzo stesso, toccando con mano cose più reali, come il tempo, l’idea del lettore finale, il mercato e così via.
Il termine livello e tutte le definizioni date prima sono esclusivamente e incontrovertibilmente convenzionali, esattamente come le date scelte per il passaggio delle età storiche (ad esempio il 1492, con l’ufficiale scoperta dell’America, segna convenzionalmente il passaggio fra età medievale ed età moderna; oppure il 1789, con la fine dell’età moderna segnata convenzionalmente dallo scoppio della Rivoluzione francese e l’inizio della rivoluzione industriale per il passaggio all’età contemporanea). Appunto, una convenzione.
Proviamo a riassumere: il lavoro di editing su un testo si stabilisce esclusivamente sulla base del testo stesso e della sua analisi, tenendo in considerazione una serie di elementi, interni ed esterni al testo, e viene convenzionalmente descritto con varie definizioni che ne semplificano la spiegazione alla persona autrice o in generale alla persona cliente.
Cosa comporta questa convenzione?
Tante cose, fra le quali anche il risvolto negativo dell’errata convinzione secondo la quale esistono per davvero gradi di editing diversi applicabili come un ex libris a qualsiasi tipologia di romanzo.
No, l’editing non si applica come uno stampino. No, l’editing non si ripete sempre uguale. No, i testi non possono essere catalogati e ingabbiati in livelli circoscritti di intervento.
L’editing dipende sempre dal romanzo
… e dall’editor.
Veniamo, dunque, al succo: ogni editing, non potendo essere inscatolato in una sola definizione perché dipendente da diversi fattori, appare inevitabilmente e squisitamente diverso da professionista a professionista.
Al di là delle basi, come la conoscenza dei principi narratologici, lo studio del genere, lo studio degli espedienti narrativi e una enorme serie di eccetera, l’editing è un lavoro non solo potenzialmente infinito (perché posso fare un editing io e poi puoi farne uno tu e poi lo rifacciamo insieme e gira-la-ruota!), ma anche potenzialmente opposto. Io, che apprezzo molto le descrizioni e le narrazioni evocative potrei applicare un editing completamente diverso da te (tu, che mi leggi e sei arrivata fino a qui senza impazzire), che invece apprezzi molto di più lo SdT e il fraseggio asciutto – questo, ovviamente, tenendo conto di tutti gli elementi di base detti prima – ed entrambi i nostri lavori sarebbero comunque formalmente corretti.
Questa affermazione inconfutabile, oltre a tirare in ballo il gusto dolceamaro del confronto sui libri («A me è piaciuto da morire!», «A me ha decisamente fatto schifo.»), porta a due considerazioni che vale la pena approfondire.
1. Non solo editor e testo, ma anche editor e persona autrice.
2. Non solo editor, testo e persona autrice, ma anche editor, testo, persona autrice e mercato.
Ora, con calma. Non solo editor e testo, ma anche editor e persona autrice. Esatto: l’editing, fra i tanti fattori che lo governano, è in parte influenzato dalle caratteristiche personali – inclusi gusti, valori e modi di fare/rapportarsi – che compongono le due persone (persone) che lavorano al romanzo. Da una parte la professionista, dall’altra l’autrice. Quindi, io che faccio un editing con X avrò un certo tipo di riscontro; io che faccio un editing con Y un altro tipo; tu che fai un editing con Z avrai un riscontro, e diverso sarà se lo farò io, e così via. Per questo è importante, quando l’autrice sceglie la persona professionista, capire se esiste un certo tipo di feeling, se ci si ritrova nel gusto, almeno il necessario per lavorare al meglio per il romanzo. Perché sì, lo scopo dell’editing dovrebbe essere esclusivamente il bene del romanzo, le sue potenzialità in linea con le inclinazioni e le cifre e la voce di chi l’ha scritto.
Ma non sempre si può avere tutto. Infatti, dobbiamo considerare anche editor, testo, persona autrice e mercato. Cosa significa? Che un editing può modellarsi, soprattutto all’interno dell’ottica di mercato delle pubblicazioni (ovvero nelle Case Editrici, concorsi, autopubblicazioni, riviste eccetera), per seguire delle linee di mercato (o linee editoriali) specifiche. È chiaro che queste linee di mercato devono essere comunicate all’editor affinché possa modellare, appunto, il lavoro sul testo in maniera ragionevole (ovvero senza mai, mai, snaturare l’intento o la voce autoriale), seguendo le inclinazioni della persona autrice e contemporaneamente avallando le linee di mercato/editoriali. Quindi, un editing svolto seguendo linee editoriali A sarà diverso da un editing svolto seguendo linee editoriali B, e diverso se si avrà a che fare con autrice X o Y, e diverso, ovviamente, se sarò io, oppure tu, oppure lei a editare.
Insomma, lo ripeto: l’editing dipende da molti fattori e, soprattutto, ci sono e devono esserci metodi e modi diversi per lavorare a un testo. Perché le storie, le parole, sono cose vive, vivaci, mutevoli, così come noi, e cambiano seguendo la scia di tante influenze, intraprendendo l’una o l’altra strada, che può essere rappresentata anche dalla persona professionista che si trova a lavorare con loro.
Ora, veniamo alla nota dolente. Ciò che ho scritto dà forse l’autorizzazione a qualsiasi buon lettore e buona lettrice, appassionata, di alzarsi una mattina e dire «Sai che c’è? Oggi divento un’editor»? Ovviamente no. Sono certa di essere stata chiara, ma meglio ripeterlo: l’editing è comunque, e tanto, un lavoro di studio e di pratica. Di molta pratica. Moltissima. Quindi è vero che non ci si improvvisa editor, ma nemmeno si standardizza o demonizza chi invece questo mestiere vuole impararlo e con il proprio metodo. Le proprie inclinazioni. La peculiare e unica caratteristica che la contraddistingue da tutte le altre professioniste. L’elemento che la fa selezionare da quella Casa Editrice, da quell’autore, da quell’agenzia letteraria, service, rivista, cliente.
Potremo fare tantissimi esempi, come quello di Paolo Giordano sull’editor come allenatore (e sappiamo che ogni allenatore ha un modo diverso di allenare, e meno male!), ma mentre scrivo queste parole ho in mente solo un’immagine: un uomo e una donna, in una stanza in penombra. Sono Grazia Cherchi e Gordon Lish. Quest’ultimo sta tracciando linee rosse sui fogli di Carver, eliminando e asciugando la scrittura dell’americano fino all’osso. La prima, invece, traccia le correzioni a matita, e sa che Stefano Benni le invierà un altro romanzo troppo fantasioso, ma lei non usa la penna rossa, “non è una ghigliottina”.
A conclusione (o, meglio: ad apertura), una bibliografia essenziale per capire i diversi tipi di editing, di interpretazione e di metodo:
Correggimi se sbaglio, ed. Santa Caterina, a.v. QUI
E così vuoi lavorare nell’editoria?, Alessandra Selmi, Editrice Bibliografica QUI
Editing Novecento, Paola Italia, Salerno Editrice QUI
Grazia Cherchi, Michela Monferrini, a cura di, Ali&no editrice QUI
Refusi. Diario di un editore incorreggibile, Marco Cassini, Laterza QUI
The art of editing, Tim Groenland, Bloomsbury, QUI
I ferri del mestiere, Fruttero e Lucentini, Einaudi QUI
A presto,
e grazie, sempre
G.


