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“La paura del giudizio”
di Elisabetta Lazzeri
Editing di Elisa Guidetti
Era stato facile. Troppo facile per non esserne tentati o per resistervi. Io, come ogni altro, avevo scelto di non fare nulla. Con le mani in tasca e un senso di colpa dilaniante, ero rimasto a guardare.
Mi avevano detto di stare lontano da lui, annoiati, con lo sguardo perso in un’abitudine che si ripeteva all’infinito. Non c’era bisogno di spiegarne la ragione, era evidente. Doveva essere connaturato in lui, come una piaga.
Lo guardai. Incedeva a qualche metro di distanza da noi, lento, solo, con la schiena ricurva e il mento abbassato. Non era un predatore dei corridoi, di quelli che camminano spavaldi, con passo cadenzato e lo sguardo falsamente indifferente, amati e temuti da tutti.
«Lui non parla mai» mi disse il ragazzo accanto a me. Non ne ricordavo neppure il nome.
«A volte urla, come le bestie» lo derise.
Lo guardai ancora. Camminava come camminano i vecchi, timoroso che le proprie gambe non avrebbero retto un altro passo, con un’insicurezza tale da non sapere dove mettere i piedi. Mi sembrava che su quelle mattonelle facesse particolare affidamento e, stanco, sfuggisse ai sussurri guardando il suolo, forse contando le fughe, forse le crepe. Camminava come rallentato dal macigno sulla schiena, lì a scalfirgli le scapole e a spiegazzargli le ali, col costante timore che gli si spezzassero. Camminava con la bocca secca, le labbra intorpidite per tutte le volte che lo avevano zittito e per tutte quelle in cui aveva ubbidito; per tutti i grumi di saliva ingoiati che, da anni ormai, gli ostruivano la gola; per tutti quei predatori che si erano divertiti ad affilare i loro artigli e a lasciarlo inerte, privato persino della parola.
«Non sembra neppure accorgersi del resto.»
Lui, come me, rimaneva con gli occhi ancora fissi sul ragazzo poco distante da noi. Io, invece, pensavo che se ne accorgesse fin troppo bene. Tutti quegli sguardi dovevano pesare parecchio, tanto da incrinare le pareti di quella bolla che si era cucito addosso, se non fossero state di gomma. Quelli più dolorosi da dimenticare, quelli spietati, quelli che non si limitano alla pelle, ma recidono nervi e carne morbida con l’intento di entrarti dentro e tagliano e si fanno strada fino alla testa e sussurrano e rimbombano; quegli sguardi si posavano sulla superficie di quel caldo e confortevole abitacolo senza che neppure uno penetrasse, erano lame, ma più si affilavano, più le pareti della bolla si ispessivano. Dentro la bolla si udivano solo rumori attutiti, come un mormorio costante, ma lieve, che si confondeva con quello dei pensieri, quasi accettabile. Di tanto in tanto si sentiva qualche bisbiglio più forte degli altri, ma lo poteva tollerare.
Stava bene. In quella bolla era semplice fingere di stare bene.
«Ma guardalo…»
Io lo guardavo, ma più lo facevo e più ciò che vedevo era diverso da quello che vedevano gli altri; più lo guardavo e più mi meravigliavo di riuscire a vedere così tanto di una persona in così poco tempo. Come era possibile che gli altri non vedessero quello che io vedevo così chiaramente? Tutto di quel ragazzo gridava aiuto.
Guardai gli altri e mi dispiacque per loro, loro che non avevano la sensibilità per farlo. Vagavano come in una massa indistinta e di cosa questa fosse fatta non era chiaro. Capii che non erano mai andati oltre la superficie. Nessuno che mai una volta avesse scorto la sua anima ferita, come quella di un soldato su una brandina. Eppure, sarebbe bastato sollevare il telo.
Era davanti alla porta di un’aula quando qualcuno lo spintonò per entrare e fu come se quella bolla all’improvviso scoppiasse, forse a causa di una parola più affilata delle altre o forse perché non c’era più abbastanza spazio per contenerne di nuove.
Appena l’altro fece per schernirlo, il volto gli si deformò in uno spasimo e la contrazione lo imbruttì a tal punto da dare forma a un’espressione più aggressiva di quella del suo compagno, che ne rimase sorpreso e indietreggiò. Le labbra gli tremolarono per poi spalancarsi, all’improvviso, in un grido.
Sentirlo fu atroce.
Fermò l’andirivieni, il calpestio delle suole, i mormorii, lo strombazzare delle auto in ritardo, i commenti sulla festa del giorno prima, i rimproveri degli insegnanti, le scuse dei ritardatari, i solleciti degli inservienti, il mio respiro. Il tempo si placò. Perfino lui ebbe pietà di quel sofferente. Io non ricordavo neppure come si facesse a parlare; gli occhi spalancati e le dita ancora sospese in aria, immobili.
Ero impietrito. Tutti in quel corridoio lo erano.
Aveva urlato con quella sofferenza che dimostrano gli animali di fronte a una canna di fucile. Aveva guaito come un cane ferito e allo stesso tempo ruggito come fanno i felini per intimidire la preda. Quel suono sapeva di disperazione e rabbia.
L’urlo si ripeté talmente tante volte nella mia testa da farmi credere che quell’eco non me la stessi solo immaginando. La sentivo ripetersi nella mia mente, mi era impossibile non farlo e più ci provavo, più questa assumeva una forma e diventava materia. Era concreta, rimbalzava sulle pareti e ad ogni rimbalzo la sua forza non diminuiva. Quell’urto continuò a scagliarsi impetuoso per i corridoi della scuola, echeggiando senza dissiparsi, in ricordo di quel dolore. Violento, di una violenza inaudita, incurante dei danni che avrebbe provocato.
Ma, nell’istante di un battito, quella maschera di dolore scomparve così come era venuta, le pareti della bolla si rialzarono e tutto fu come prima. Era tornato a nascondersi. Sorrideva, perfino. Quello sconcerto, quel disagio, quel malessere, ora eravamo noi a provarlo. Sembrava si sentisse a suo agio in quel mare in tempesta.
E così come non si crede a ciò che non si vede, tutti ripresero a camminare e a borbottare, fingendo che nulla fosse successo. I loro occhi si erano dimostrati profondamente pigri: avevano visto, ma era bastato un batter di ciglia per cancellarne la memoria. Pareva indossassero le cuffie e ascoltassero una musica tutta loro. La gente era talmente ottusa da non vedere i palmi insanguinati e il cuore pulsante, scoperto, alla mercé di chiunque. A loro bastava spalancare le palpebre per fingere di vedere.
«Te l’avevo detto, io. Lui non parla. Urla.»
Fece per andarsene, ma io rimasi fermo lì. Lo sguardo rivolto a lui soltanto.
«Non vieni?» mi chiese il mio accompagnatore.
Non gli risposi neppure.
«Cosa fai?» mi rimbeccò quando vide che mi allontanavo nella direzione sbagliata. Continuò a chiamarmi finché non mi fermai.
«Vai da lui? Ma non lo vedi?» aggiunse sbalordito.
Capii che, a prescindere da cosa avessi risposto, avrei solo sprecato fiato. Non avrebbe mai considerato un punto di vista diverso dal suo, quindi rimasi in silenzio.
«Bene! Vuoi fare amicizia con un gay, vai!»
Mi colpirono lo scherno e la prontezza innaturale con cui formulò la frase e calcò la parola “gay”. Un commento di quelli che gli erano stati inculcati nella testa, pronto all’uso, pronto a ferire, da sputare quanto più velocemente possibile, per non pentirsene ancor prima di averlo pronunciato.
«Tu come lo sai?» domandai io.
«Si mette lo smalto. Non lo vedi?» e lo indicò fugacemente, la fronte aggrottata.
«Sono affari suoi. A te cosa importa?»
Mi rimproverai mentalmente per la nota aspra nella mia voce. Non ne valeva la pena.
«Figurati se mi interessa di un pazzo.»
«Allora vattene.»
Mi uscì di bocca senza che me ne accorgessi.
Lui mi guardò come si guarda uno sprovveduto, un ingenuo dalle idee utopistiche.
«Ma lo hai visto?»
Di nuovo, come se fossi io il cieco.
«Io sì.» E tu?
E senza aspettare una risposta, gli diedi le spalle e mi avvicinai cauto a quell’animale ferito.
Nel momento in cui lo chiamai, vidi le sue dita colpire l’aria a vuoto in uno spasmo nervoso e incontrollato, tratteneva l’indice con il polpastrello del pollice e poi lo faceva scattare. Fece lo stesso con le altre dita, una dopo l’altra, ancora e ancora. Vidi i suoi occhi muoversi rapidi da un angolo all’altro della bolla e le spalle serrarsi intorno al collo, all’improvviso, quasi si aspettasse di essere assalito.
«Ciao! Ho visto che eri diretto alla classe di Fisica. Mi presteresti gli appunti dell’ultima lezione?»
Non mi rispose. All’inizio pensai non mi avesse sentito arrivare. Quando lo ripetei, si voltò di tre quarti e rimase così, fermo, ad ascoltarmi. Continuai a parlargli tentando di trasmettergli le mie buone intenzioni, finché non mi guardò per la prima volta. La luce riflessa nei suoi occhi si aggrappò ai miei capelli, alle mie mani sui lacci dello zaino, alla maglietta stropicciata che tentai di sistemare all’ultimo, alle mie dita tremanti.
«Scusa, se ho urlato.» Furono le prime parole che mi rivolse.
Ne rimasi sorpreso, ma capii che aveva voluto scusarsi con l’unica persona che aveva deciso di distinguersi dalla massa e di tendergli una mano. Me lo disse guardandomi negli occhi, con il mento alzato e la schiena dritta. Per un attimo, mentre mi parlava, quel macigno scivolò dalle sue spalle e, in uno slancio, le ali si liberarono. Piumate, un po’ spettinate, ma candide, mai usate prima. Non glielo dissi, ma pensai non ci fosse proprio nulla di cui scusarsi.
Avrei voluto fosse andata così. Invece ero rimasto lì a fissarlo, come tutti gli altri. L’avevo visto per quello che era realmente e avevo davvero creduto che nessun altro ne fosse stato capace. Ma il dolore si rende sempre riconoscibile a chi lo ha provato. Io avevo continuato a fingere di non vederlo, come tutti, perché era la cosa più facile e meschina che potessi fare. Ero rimasto lì impalato, dando ascolto alle parole di persone senza nome.
Se avesse urlato, se si fosse ribellato a tutto quel male che gli era stato fatto… che io gli avevo fatto, con il mio silenzio e con il mio consenso. Avrei voluto vederlo urlare, sfogarsi. Allora, forse, mi sarei sentito meno in colpa, forse avrei pensato che ci era riuscito anche da solo, che era stato forte abbastanza da non aver bisogno di un supporto, che la mia presenza al suo fianco sarebbe stata superficiale. Forse avrei potuto illudermi. Invece era rimasto lì, nella sua bolla, a lottare in silenzio per non affogare all’interno di quelle pareti di gomma, che nulla facevano entrare e nulla, neppure le lacrime, facevano uscire. Fingere di stare bene era facile. Era sempre stato facile.
La mia bolla aveva una consistenza diversa. Era fatta delle persone con cui convivevo, di volti dal sorriso precario, di mani curate, prive di calli e con le unghie laccate, ma giudicanti, con l’indice pronto a puntarmi su di me. Quelle pareti non erano di gomma, erano fatte di ghigni sprezzanti, di denti tanto affilati da spaventare anche i più temerari come me. Allora ero rimasto lì, al centro della mia bolla, quanto più lontano possibile da quelle dita smaltate, immobile, mentre acconsentivo a tutto quel male.
Quella bolla aveva protetto e condannato entrambi: lui alla solitudine e me alla paura del giudizio.
Per qualche secondo ancora era rimasto impalato davanti alla porta, permettendo agli altri di dare sfogo alle prese in giro. Era stato l’ultimo a entrare e io l’ultimo ad andarmene.
L’autrice
Mi chiamo Elisabetta e ho vent’anni. Scrivo da quando ero tanto piccola da non saper ancora scrivere. Mi sedevo al tavolo della cucina, mio fratello maggiore di fronte, talmente preso dal suo testo descrittivo da non badare neppure a me, e, mentre lui andava alla ricerca dell’ennesimo aggettivo, io scarabocchiavo sul taccuino, ricopiavo quei ghirigori che costeggiavano la riga, poi salivano, scendevano, macchiando di nero la carta. La scrittura è una parte della mia persona, non posso quindi dire di amarla, così come non ho ancora imparato ad amare me stessa, ma la sento mia come un occhio per aiutarmi a vedere più chiaramente.
Instagram: @une_myosotis
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L’editor
Elisa Guidetti, 26 anni, vivo in provincia di Novara e sono laureata in Editoria e Comunicazione all’Università degli Studi di Milano. Sono una Media Relation Account presso un’agenzia che si occupa di Ufficio Stampa, ma non è la mia strada. Vivo e respiro libri e letteratura, mi interessa cosa accade nel mondo editoriale, vorrei farne parte. L’editoria è la mia strada, ne sono più che certa, e mi sto impegnando al massimo per essere quello che voglio essere: un’editor competente.
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