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“L’ULTIMO DISEGNO DI AYLEN”
DI L.G.
EDITING DI PAOLA BELLINI
Si chiamava Heke, il ragazzo più bello dell’isola, e pescava marlin per due motivi.
Il primo: era uno dei lavori più redditizi che un giovane potesse svolgere in quel luogo sperduto, abitato da cinquemila anime.
Il secondo, di cui un po’ si vergognava, era che aveva letto Il vecchio e il mare: sfogliare le pagine delicate di un libro non si addiceva molto alle mani di un pescatore crepate dal freddo, ma Heke aveva iniziato a leggerlo quasi per caso ed era stato trascinato, insperabilmente, dentro la Corrente del Golfo che bagnava le prime righe del racconto.
Inutile dire che avrebbe voluto anche lui portare a casa il marlin più grande che i suoi compaesani avessero mai visto.
Cinquemila persone, voi capirete, si conoscono tutte ed è facile diventare una celebrità o eccellere in qualcosa quando il metro di giudizio è esiguo.
Heke, senza peccare di presunzione, sapeva di essere più giovane e in forza del vecchio Santiago: se Hemingway avesse messo lui su quella barca il mondo avrebbe conosciuto una storia completamente diversa.
L’anziano pescatore ne era uscito sconfitto, il marlin l’aveva trascinato per un po’ fiaccandone la tenacia mentre i pescecani avevano fatto il resto: gli avevano spolpato l’orgoglio e ridotto la preda a uno scheletro.
Lui, Heke, sarebbe tornato, trionfante, a riva con un enorme marlin intatto.
Forse le cose sarebbero andate così e, prima o poi, lui avrebbe veramente sorpreso gli amici con una pesca da record, se solo non avesse conosciuto Aylen.
Veniva dalla terra ferma, come le scorte di medicinali e di cibo, ma aveva il cuore sciolto in mare, negli occhi aveva riflessa la schiuma grigia delle onde e dalla bocca le uscivano pesci, letteralmente: era una biologa marina e parlare dell’oceano le allargava il sorriso.
Di tutto questo si innamorò Heke mentre Aylen si perse nel fascino della sua pelle color caramello e di quello sguardo che pareva avere mani che le imbrogliavano le viscere.
Era arrivata sull’Isola di Pasqua per studiare la fauna ittica, ma era rimasta per condividere la sua vita con un ragazzo del quale sapeva pochissimo, attratta come da squame iridescenti: quell’involucro di fascino che lui emanava.
Insomma: un uomo dell’isola di Pasqua era una preda esotica per una ragazza cilena e lei non se lo era lasciato sfuggire.
Li accomunava la passione per il mare ma, in realtà, non potevano condividerla.
Aylen il mare lo studiava da dentro. Lo attestavano una laurea e un brevetto da sub, il suo amore incondizionato per i fondali marini e il desiderio sempre più forte di restarsene lì sotto a guardare le alghe solleticare i pesci e il sole dissolversi nelle correnti.
La leggerezza del suo corpo immerso era una sensazione che le restava addosso anche fuori dall’acqua e di cui di cui sentiva presto la mancanza: a terra sembravano pesare anche i pensieri.
Un’ansia dolciastra la consumava nell’attesa di una nuova immersione mentre già immaginava la luce del sole scomporsi in raggi sottili e i suoni sciogliersi, farsi delicati e inconsistenti.
Heke, al contrario, era solidamente ancorato a terra: lui il mare lo mangiava e averci a che fare era una necessità ancestrale. Sapeva cavalcarlo, restarci a galla come in bilico su una corda per poter guardare dall’alto quella massa opalescente da depredare.
Solo non riusciva a guardarci dentro, non più da tanti anni: da quando il mare era diventato non solo istinto e silenzio ma anche terrore.
Un profondo tormento gli imbrattava gli occhi nei quali, da tempo, era tatuata la morte del fratello annegato.
Nella pancia di quel mostro lui non ci voleva più entrare: aveva lasciato andare a fondo i ricordi e sperava che restassero lì, sommersi.
«Terrorizzato dall’apnea… Come ci siamo finiti insieme noi due?» chiese Aylen al marito, in una sera che non sarebbe stata come le altre.
Lei stava sistemando i piatti della cena mentre Heke chiudeva porte e finestre prima di andare a dormire.
Pensare a quella discrepanza fra loro le strappò un sorriso amaro.
Heke le rispose divertito: «Tu sei arrivata qui in aereo, io ero il più bel ragazzo che tu avessi mai visto e non vedevi l’ombra di un uomo da due anni… è stato inevitabile, direi!» e, nel dirlo, la sorprese con un bacio sul collo.«Cretino, avrei potuto averne cento di uomini, se solo avessi voluto!». Fissò il vuoto per un’istante, come provando a ricordare cosa veramente l’avesse legata a Heke. Da un po’ di tempo, in realtà, se lo chiedeva, da quando un macigno li aveva divisi.
«Deve essere andata come dici tu, eri troppo bello…» mormorò Aylen, con una punta d’incertezza, come se la sua mente provasse a farle ricordare qualcosa che lei, di proposito, aveva lasciato sparire nella corrente dei ricordi.
Lui lo notò, ma fu un attimo, la stanchezza ebbe il sopravvento e pensò che non valesse la pena mettere in dubbio tre anni di matrimonio, per una piccola esitazione.
Preferì baciarla e prenderla in braccio per portarla in camera, un gesto istintivo che gli ricordò la loro prima notte di nozze.
Quella, invece, fu l’ultima notte insieme.
Prima di addormentarsi, Aylen sussurrò: “Domani sono trentacinque”.
Heke non prestò molta attenzione e si addormentò pesantemente, per risvegliarsi solo qualche ora dopo.
Scese silenzioso dal letto e uscì per la pesca.
La sua barchetta scivolò sull’acqua, con la pacatezza di un vecchio saggio: sapeva come fendere la superficie, sapeva come farsi guidare ma, soprattutto, come restare a galla.
Quella mattina, mentre il sole cercava di sorgere, Heke ripensava all’abisso che divideva lui dalla moglie: il suo terrore di immergersi, di restare senza aria, quella smania di usare i polmoni solo fuori dall’acqua, gli avevano precluso ore preziose assieme ad Aylen.
E tutto quel tempo sprecato aveva silenziosamente scavato fra loro una voragine che si era fatta baratro incolmabile quando, qualche mese prima, lei era tornata trionfante da un’immersione.
«Credo di aver scoperto una nuova specie!» aveva gridato euforica. «Heke, devi vederlo: è un esserino fantastico! È capace di imitare l’aspetto di quello che ha di fronte, che sia una roccia, un’alga, un pesce o un corallo… qualunque cosa, Heke! Non ho ma visto niente di simile!» saltellava emozionata come per scaricare un po’ di quell’entusiasmo
Heke dovette fare uno sforzo tutt’altro che naturale per partecipare alla conversazione con lo stesso trasporto. «Ma non potrebbe essere un polpo mimico o come si chiama, una volta me ne avevi parlato…»
«No, impossibile. Il polpo mimetico è comunque un polpo, saprei riconoscerlo e comunque mantiene la mimesi per il tempo necessario a ingannare un possibile predatore. Questo… coso, non so come chiamarlo, non so a che phylum appartenga né so con certezza se sia un celenterato o altro. La verità è che non conosco le sue vere sembianze: l’ho sempre visto come di fronte a uno specchio, sempre uguale a ciò che ha di fronte.»
La conversazione stava per virare bruscamente in una direzione scomoda per Heke ma doveva ammettere che la scoperta di sua moglie aveva dell’incredibile e lui avrebbe voluto esserle utile.
Si sedette al tavolo della cucina, Aylen fece lo stesso: occhi negli occhi, i due si erano appena posizionati ai margini opposti della voragine.
«Forse, dovresti contattare quel tuo professore di biologia marina, dici sempre che lui conosce l’oceano come le sue tasche.» azzardò Heke.
«Non posso, passerei per una ciarlatana: questo essere non esiste in nessuna enciclopedia, se si tratta di una specie nuova devo continuare a studiarla finché avrò la certezza di poter dire di cosa si tratta. Heke, ti prego, scendi con me.» Aylen sussurrò la sua richiesta tendendogli la mano, sapeva di essersi incagliata contro uno scoglio dolorosamente appuntito.
Silenzio.
«Devi vederla anche tu o ci divento matta, deve vederla qualcun altro, ma posso fidarmi solo di te, è una scoperta troppo sensazionale, non posso sbandierarla. Ti prego, domani sarà la quindicesima volta» provò a persuaderlo.
Ma dell’effervescenza iniziale, ormai, restavano le ultime piccole bolle.
Quella sera, sul loro rapporto, si era posato un masso megalitico, una di quelle enormi pietre di tufo e basalto che costellavano l’isola, come schegge infilate sottopelle.
Era successo quando, senza nemmeno guardarla, Heke le aveva risposto:
«Aylen non insistere, non ci scendo più là sotto.»
Lui non avrebbe voluto essere così meschino, avrebbe fatto di tutto per lei, ma non questo.
Così, si erano inabissati insieme in una sorta di apatia e le immersioni di Aylen avevano smesso di essere argomento di conversazione.
Lui le aveva regalato un quaderno rilegato a mano da un artigiano locale e le aveva chiesto di scrivere quello che vedeva come se stesse parlando con lui, promettendole che l’avrebbe letto.
Promesse da marinaio, che ricordava solo quando, come in quel momento, era in mare aperto, troppo lontano da casa per mantenerle.
Una mancanza che avrebbe maledetto, qualche ora più tardi, quel giorno.
Tornando a casa, infatti, si accorse immediatamente che mancava qualcosa e lo invase una sensazione di abbozzato disagio. Quella scia fastidiosa che resta fra lo stomaco e la testa per i sogni interrotti a metà o per le domande che non hanno risposta.
Era abituato a rientrare dalla pesca e trovare la casa vuota, ma quella volta non c’era il calore lasciato da Aylen la mattina, dopo che aveva fatto colazione e si era cambiata per uscire.
Il letto era vuoto e in disordine, in cucina le stoviglie erano intonse: non aveva mangiato.
Il pavimento del bagno era asciutto e lindo, niente schizzi d’acqua nella doccia, né capelli lunghi caduti a terra: si era lavata velocemente, forse, senza nemmeno spazzolare i capelli, ma di sicuro li aveva legati, perché il suo elastico colorato non c’era.
Raccoglieva sempre i capelli e li avvolgeva in una bandana di seta, quando doveva indossare la maschera da sub: era un rituale,ormai e, infatti, la bandana non era al suo posto.
C’era, nello sguardo di Heke, un’ansia composta che cercava spiegazioni rassicuranti ai dubbi che lo rendevano inquieto.
Era chiaro che Aylen avesse deciso di immergersi già alle prime luci dell’alba, mentre lui era ancora in porto a svuotare le ceste di bottino, eppure non capiva il motivo di tanta fretta.
Doveva avere qualcosa a che fare con l’esserino che, ormai da qualche mese, si era insinuato fra loro.
Heke lo odiava, dal primo istante in cui ne aveva sentito parlare: aveva capito subito che quella cosa informe avrebbe allargato il cratere che li divideva.
Non l’aveva mai visto, ma si era insinuato fra loro come un terzo incomodo.
Heke era sicuro che Aylen fosse in acqua, ma aveva deciso che avrebbe atteso il suo ritorno, per chiederle spiegazioni: a quell’ora non era in grado di ragionare lucidamente, la stanchezza della notte passata a pescare reclamava la sua attenzione. Si buttò a peso morto sul letto ancora sfatto e sprofondò in un sonno inquieto.
Era un torpore spossato che costringeva la mente a fluttuare tra i labirinti ritorti del conscio e dell’inconscio. Heke si perse in quel groviglio e ci restò per ore finché un incubo terrificante lo riportò alla realtà.
«Aylen! No!» gridò balzando giù dal letto.
Le gambe ressero il suo peso per pochi secondi, prima di farlo crollare a terra sopraffatto.
Con la testa stretta forte tra le mani e gli occhi serrati cercava di trattenere le ultime immagini di quel sogno spaventoso ma non riuscì: il grido con cui si era svegliato aveva scagliato fuori le ultime immagini e le aveva frantumate contro il silenzio della stanza.
A Heke restava una maglietta fradicia di sudore e la sensazione truce di un presagio.
Quando riuscì a sollevarsi in piedi vide, riflessa sul vetro della finestra, l’immagine di un uomo pallido, solo e spaventato e stentò a riconoscersi.
Prima ancora di mettere insieme i pensieri, si maledisse per ogni istante che aveva stupidamente regalato a quella specie di pesce, per la paura vigliacca che fino a quel momento lo aveva tenuto lontano dalla donna di cui si era innamorato, la sua fantastica biologa marina e giurò che le cose sarebbero cambiate.
Stava mentendo a se stesso, ma aveva bisogno di farsi una promessa, qualcosa a cui aggrapparsi con forza, perché, senza un vero motivo, intuiva che la sua vita stava per sfuggire a ogni controllo.
Non era mai stato così ansioso per un’assenza di Aylen, né mai troppo preoccupato per un suo ritardo, ma gli sembrava palese che questa volta sarebbe stato inutile sperare che tornasse.
Guardò nervosamente l’orologio cercando di mettere a fuoco le lancette:
«Maledizione è tardissimo!» imprecò, sorprendendosi per il tono insolitamente alto della sua voce.
Mai nella sua vita di pescatore aveva dormito per più di quattro ore e quel giorno, proprio quel giorno maledetto, aveva dormito tanto da far calare la sera.
Ancora frastornato dall’incubo e dalle sensazioni che gli chiudevano la gola, salì sulla macchina e guidò disperato verso sud: sapeva benissimo qual era la zona preferita da Aylen e da quell’esserino per incontrarsi, gliel’aveva sentita pronunciare spesso.
La piccola isoletta di Motu Kao Kao, di fronte a Orongo, aveva fondali cristallini, labirinti di caverne e grotte subacquee, si stagliava orgogliosa a pochi metri dalla costa ed era facilmente raggiungibile con l’aiuto delle pinne: era certo che l’avrebbe trovata lì, sempre che ci fosse speranza di rivederla.
Arrivato a Orongo, però, scorse già da lontano quello che aveva sperato di non vedere: la jeep di Aylen abbandonata sul ciglio della strada.
Il mezzo era vuoto: maschera e boccaglio, muta e tutto il resto dell’attrezzatura doveva averli presi Aylen per immergersi.
In realtà, sul sedile del guidatore, c’era il quaderno che Heke le aveva regalato, ma lui non lo vide subito, offuscato com’era da un nuovo terrore.
Gli restava solo la speranza di scendere in spiaggia e trovarla addormentata, magari spossata da una lunga immersione.
Lei gli sarebbe corsa incontro chiedendogli scusa per il ritardo e raccontandogli di essersi fatta distrarre dalle alghe, dai pesci e dal suo strano amico: quanto avrebbe voluto in quel momento sentirla parlare di quel mostriciattolo…
Corse verso riva, urlando il nome della moglie e si guardò intorno alla ricerca di un’altra anima viva: niente da fare, nemmeno gli occhi di una di quelle enormi teste di pietra da fissare, un dio da pregare.
Al suo terrore di aver perso Aylen si aggiunse quello fin troppo familiare di morire annegato.
Provò a tuffarsi ma il suo corpo, o la sua mente, glielo impediva: le gambe lo trascinavano in acqua, le braccia menavano colpi piazzati ma in realtà faceva più passi indietro che in avanti.
Il grosso marlin fiaccato dal vecchio Santiago aveva accettato con più decoro la sua impotenza, aveva accolto con dignità regale la sua sconfitta; Heke invece piangeva come un bambino capriccioso.
Finché sfinito si lasciò cadere sulla sabbia e lì restò.
Sopraffatto dal pensiero di un passato che si stava riproponendo ostinato.
Gli piombò addosso la notte come uno squalo sulla preda e con la stessa velocità il sole sorse alle sue spalle.
Aveva fissato un punto indefinito per tutto il tempo, senza motivo apparente, sentiva che era lì che Aylen lo stava aspettando.
Nel vento tiepido che lo spettinava gli era parso di udire la sua voce più di una volta, nelle minuscole gocce d’acqua salata di cui si impregnava l’aria aveva intuito il suo sapore.
Quella notte Heke sentì sugli occhi le punture feroci di mille aghi e un nuovo tatuaggio gli offuscò la vista, il dolore fu tale che pensò che quella volta gli dei lo stessero marchiando a fuoco.
L’oceano adesso si era preso anche Aylen e lui era lì seduto, impotente, che fissava frastornato quel ventre ingordo: immaginava che laggiù, in quel punto imprecisato da cui era attratto, ne avrebbe trovato l’ombelico.
Sperava che Aylen e suo fratello fossero lì, magari attaccati al cordone come feti in attesa di rinascere pur tuttavia raggiungibili: lui avrebbe potuto avvicinarsi con la sua barca, allungare un remo e portarli fuori.
Ma un mostro silenzioso si era seduto al suo fianco: aveva il volto dell’indolenza e cicatrici sulle spalle per ogni volta che Heke aveva rimandato una conversazione, per ogni bacio non dato.
Gli stette accanto tutta notte, come un amico inopportuno e ingombrante, il suo abbraccio pesante gli incurvava le spalle mentre gli sussurrava alle orecchie: «È inutile, è troppo tardi.»
Quando fu l’alba, divenne evidente che non c’era nessun ombelico e che l’unica folle speranza di Heke era svanita.
Alzarsi gli costò uno sforzo immane, il dolore lo aveva paralizzato nella stessa posizione per ore, ma si avviò lentamente alla jeep.
Diede un ultimo sguardo stanco all’interno dell’abitacolo e notò il quaderno appoggiato sul sedile.
Esitò: non era certo di volerlo leggere, sapeva che avrebbe trovato risposte scomode e aveva troppo male alle ossa in quel momento per riuscire ad affrontarle.
Ma, senza nemmeno accorgersene, stava già spaccando il vetro, il quaderno era fra le sue mani, le sue mani erano sul volante per tornare a casa e si trovò seduto al tavolo della cucina.
Si scosse dal torpore che lo aveva accompagnato fino a quell’istante solo quando il bicchiere d’acqua che stava bevendo cadde rumorosamente a terra: il fragore improvviso gli risvegliò i sensi.
Si guardò intorno come appena destato da un coma, ma non aveva nessuno a cui fare domande, solo un quaderno, rilegato a mano da un artigiano locale, che non aveva ancora avuto il coraggio di aprire.
Due ore dopo, lo aveva letto e riletto, aveva pianto sui disegni, così precisi e fantasiosi, che Aylen aveva tracciato, con matite e acquerelli: non sapeva che sua moglie disegnasse così bene, lei non aveva mai parlato di quella sua passione e lui non le aveva mai chiesto cos’altro amasse, al di là del mare.
Due ore dopo, capì anche che non poteva chiedere aiuto.
A nessuno.
Caricò in macchina una muta, una maschera, una grossa bombola di ossigeno e una bottiglia di pisco cileno, abbastanza scadente da intorpidire tutti gli strati della coscienza in una sola volta.
Giunse, di nuovo, a Orongo, a metà pomeriggio.
Rivedere la jeep vuota gli causò una nausea tale che dovette fermarsi a vomitare.
Sceso in spiaggia si fermò per un solo istante a contemplare la solitudine di quel posto ma non gli fu chiaro se stesse guardando fuori o dentro di sé: sul bagnasciuga deserto c’erano lui e la sua attrezzatura pronti a buttarsi in acqua, nient’altro.
La bottiglia di pisco era rimasta in macchina, scolata.
Pochi minuti dopo, Heke era sott’acqua, per la prima volta da quando il mare si era preso suo fratello.
Le bombole gli permettevano di usare i polmoni nel modo che gli era più familiare e questo gli dava una pace inquieta, come se una parte di lui si sentisse in colpa per non averci provato prima, ma aveva in corpo abbastanza alcol da mettere a tacere quella parte fastidiosa dei suoi pensieri.
Dall’alto, filtrava la luce del sole e quel mondo sommerso, conosciuto poche ore prima nei disegni all’acqua di Aylen, ora gli appariva familiare: un mondo fatto di immagini e colori e pochissimi suoni.
Non era diverso dalle albe silenziose trascorse sulla barca, con la sola compagnia di qualche pesce muto, immerso nelle reti a fianco.
Lì sotto, nella pancia dell’oceano, iniziava a capire l’amore della moglie per quell’atmosfera magica, quell’abbraccio fluido che lo avvolgeva e lo sollevava.
Aveva dimenticato tutto questo, l’aveva sepolto nei ricordi d’infanzia.
C’era una stanza felice della memoria in cui Heke aveva stipato le nuotate con il fratello,i loro giochi di bambini, il profumo della zuppa di pollo e il primo pesce abboccato all’amo.
Ora, inondata di acqua salmastra, quella stanza rimandava a galla immagini spensierate,così leggere da risalire velocissime.
Heke si sorprese a sorridere per la prima volta ripensando al fratello.
L’incanto durò finché non si rese conto di essere in un posto mai visto prima, ma stranamente conosciuto: sotto di lui il fondale si apriva in un abisso scuro, che poi risaliva verso la costa della piccola isoletta di Motu Kao Kao.
Aguzzando la vista, si rese conto che Aylen aveva disegnato quel tratto di mare con dovizia di particolari: alghe, coralli, scogli sommersi e ingressi di caverne alti come le porte delle cattedrali.
Riconobbe l’ingresso della caverna in cui doveva essersi rintanato quell’animale impossibile, quel maledetto… cosa accidenti era? Non lo sapeva, ma aveva la certezza che ci fosse qualcosa di fatale in quell’esserino.
Quello che Aylen aveva scritto sul quaderno aveva dell’incredibile: lo aveva visto imitare un’alga una ventina di volte prima di mangiarla e assimilarne la capacità di filtrare l’acqua e svolgere la fotosintesi.
Stessa cosa con un maestoso e sfuggente polpo, che si era abituato alla presenza dell’esserino e ne sembrava ipnotizzato.
Fra una trasformazione e l’altra Aylen sembrava non riuscire a vederlo, non aveva saputo farne un disegno se non quando ormai la trasformazione era avvenuta: aveva disegnato due alghe, due polpi, due meduse ma mai lui.
Sui disegni, Aylen aveva appuntato delle cifre, seguite da un punto interrogativo: sembravano indicare quante volte era avvenuta la mimesi prima dell’assimilazione.
Erano numeri incerti che fluttuavano tra il 15 per un anemone e il 27 per un piccolo marlin.
L’ultimo disegno di Aylen era quello che lo aveva convinto che c’era qualcosa di terribile che non avrebbe potuto spiegare a nessuno.
Tanto da fargli vincere il suo assurdo terrore per l’apnea e convincerlo a scendere in quel mondo squagliato sul quale era solito stare a galla.
Capì di essere nel posto giusto quando vide due coralli identici, all’ingresso della caverna.
Controllò la riserva di ossigeno e si appostò dietro una roccia, immobile e spaventato.
Uno dei due coralli ebbe un sussulto, un’inspiegabile bioluminescenza avvolse entrambi e ne restò solo uno.
Doveva essere lui, quell’esserino spaventoso.
Ricomparve poco lontano di fianco a un paguro, di cui imitava aspetto e movenze.
A vederli uno di fianco all’altro, ci si chiedeva dove fosse lo specchio, tale era la perfezione con cui quel plagio fatale si consumava.
Poco dopo, di nuovo, la bioluminescenza avvolse i due corpi, ancora una volta ne restò solo uno e sparì.
Da ciò che aveva letto negli appunti di Aylen, quella non doveva essere la prima volta che quel coso si avvicinava al corallo e al paguro. Heke evidentemente era arrivato al momento dell’ultimo incontro, nell’ultimo istante dell’assimilazione.
Le domande che gli martellavano in testa lo stavano facendo impazzire: come aveva fatto Aylen a sopportare tutto questo da sola?
Quante volte aveva cercato di parlargliene e lui aveva chiuso bruscamente la conversazione!
L’esserino, intanto, sembrava essersi dissolto nel nulla.
Heke lo cercava con lo sguardo ma, intorno, c’erano solo gli ultimi raggi del sole che affondavano in mare, con poca convinzione, e i primi pesci della sera, che iniziavano a smuovere il fondale.
Si voltò per tornare a riva e, in quell’istante, si trovò di fronte al suo riflesso.
Occhi negli occhi, lesse in se stesso il terrore che lo stava immobilizzando.
Vide il suo corpo, le sue braccia muscolose, il suo torace, che a malapena conteneva un battito incontrollato, la barba incolta che quella mattina non aveva rasato.
Più contemplava, sbalordito, quell’immagine di sé e più una calma improbabile gli si insinuava in petto.
In un momento magico al ragazzo sembrò di vedere il corpo di Aylen fluttuare lì di fronte a lui e poi polpi, anemoni e paguri e un intero fondale riflesso nei suoi occhi.
Negli occhi di quella specie innominata, gli sembrava di vedere quelli di sua moglie.
Voleva raggiungerla e salvarla.
Ogni parte di lui desiderava quell’essere, voleva appartenergli per sempre.
Ma, in un istante luminoso, tutto sparì e lui si ritrovò solo e quasi senza ossigeno.
Fece in tempo a risalire e arrivare a riva, prima che il panico gli togliesse quel poco fiato che gli era rimasto.
Corse verso la macchina, guardandosi le spalle, come se qualcosa lo stesse inseguendo, ma, una volta entrato e chiuse a chiave le portiere, si accorse che non poteva scappare dai rimorsi.
Sul sedile di fianco al suo, c’era il quaderno di Aylen, aperto sull’ultimo disegno: sotto a un piccolo “35?”, c’era il viso di lei, di profilo, davanti a quello che a chiunque altro sarebbe sembrato un semplice specchio.
***
Dicono che abitasse in questa casa il ragazzo più bello dell’isola, un certo Heke, scomparso nel nulla insieme alla moglie.
Ci sono trentacinque tacche intagliate sulla porta d’ingresso, dovrò farla cambiare se deciderò di venire a viverci.
L’autrice
L.G.
Nascondo il mio nome perché lo pronuncereste sbagliato e perché ho un’invalidante ossessione per la privacy. Per lo stesso motivo non posto mie foto sui social anche se non mi faccio nessun problema a sbandierare la mia vita privata nelle strisce a fumetti che pubblico su Instagram: incoerente non lo nego.
Le storie, quelle serie, provo a scriverle da quando improvvisamente mi sono trovata chiusa in casa assieme ad altri sette miliardi di persone e ho scoperto di avere un sacco di tempo a disposizione. Si aggiunga che mi sono ricordata che prima di intraprendere gli studi scientifici avevo una certa passione per la letteratura, rimasta latente e piuttosto repressa. Ma per fortuna leggo molto più di quanto scrivo.
IG: lupy_world
L’editor
Sono Paola Bellini, sono cantante, storica dell’arte e autrice. Laureata in beni artistici e dello spettacolo, specializzata in didattica della musica e mercato dell’arte, sto concludendo un master in management della comunicazione, grazie al quale sto approfondendo tematiche legate all’editoria, al diritto d’autore e alla scrittura, in generale. Per un paio d’anni, mi sono occupata di saggistica d’arte moderna, della redazione di expertise e della catalogazione di opere d’arte contemporanea. Quel periodo mi ha permesso, inoltre, di avvicinarmi alla correzione di bozze e all’editing. Attualmente, sono parte della famiglia Blueberry Edizioni, con la quale pubblicherò il mio romanzo d’esordio.
Instagram: @bellinipaola_
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