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“Ombre dal passato”
DI M.L.
EDITING DI VALERIA BANCHERO
TW: molestie sessuali
Quella particolare giornata di novembre non la dimenticherò mai. Il cielo era cupo, malinconico, le sue lacrime sottili scivolavano lungo i vetri della finestra. Mi ero svegliata con un dolore lancinante alla gola, tale da non riuscire nemmeno a parlare. Scesi dal letto, ciabattai in cucina e iniziai a preparare il caffè. Un pensiero confuso mi martellava nelle tempie, accompagnato da immagini sfocate di un sogno che avevo fatto quella notte. Cercavo di dar loro un senso, una forma, ma era inutile, come quando hai una parola sulla punta della lingua ma non riesci a dirla. Poi, mentre facevo colazione ascoltando distrattamente il vento che sbatteva sulle persiane, ricordai improvvisamente ogni dettaglio.
Andare all’università quella mattina fu un sollievo. Più tempo trascorrevo in camera mia e più ripensavo a quel sogno folle, talmente vivido da risultare inquietante. Sentivo ancora il freddo nelle ossa, il buio negli occhi, le lame nella gola. Mi precipitai fuori casa, ma nella fretta di uscire dimenticai l’ombrello e così dovetti correre alla fermata dell’autobus sotto la pioggia incessante. Il 39 era già arrivato e mi affrettai a salire. Affannata e infreddolita, presi posto accanto a una signora anziana che dormiva con la testa appoggiata al finestrino e subito mi investì una sensazione di disagio, come se non dovessi essere lì in quel momento. Afferrai un libro dal fondo dello zaino per scacciare quei pensieri, ma questo mi scivolò di mano, cadendo a terra con un tonfo. Alcuni passeggeri si voltarono verso di me, infastiditi, la signora al mio fianco invece non si mosse né aprì gli occhi. Pensai fosse sorda o sotto l’effetto di un pesante sonnifero. Eppure, posso giurare di aver sentito una voce provenire dalla sua direzione proprio un attimo dopo. Più che una voce umana, mi ricordò il rumore del gesso che stride sulla lavagna:
«È colpa tua» gracchiò. Un brivido mi attraversò la schiena.
Ad ogni modo, non pensai più né al sogno né alla signora per il resto della giornata. La sera rientrai a casa con una pizza d’asporto e lo stomaco che gorgogliava dalla fame. Accesi la tv mentre il gatto si strusciava sulle mie gambe in cerca di coccole; a quell’ora ascoltavo sempre le notizie del telegiornale locale. E proprio quando stavo per addentare la prima fetta, sentii il telecronista annunciare:
«Signora ottantacinquenne colta da malore, muore improvvisamente a bordo dell’autobus. Intervistati, l’autista e i passeggeri si sono dimostrati ignari dell’accaduto».
Mi bloccai con la pizza a mezz’aria e rivolsi gli occhi allo schermo. Alle spalle del telecronista era parcheggiato un autobus, l’insegna luminosa indicava il numero 39. Quella che seguì fu una delle notti più assurde della mia vita. A tratti prendevo sonno, quel tanto che bastava per rivedere la me stessa di quella mattina seduta sull’autobus, accanto alla signora morta. C’era troppo rumore, la testa mi scoppiava, ma gli altri passeggeri non sembravano affatto infastiditi. All’improvviso la signora apriva gli occhi e mi guardava, ma dietro le sue palpebre non c’era nulla, il vuoto assoluto. Agitava le braccia alla cieca nella mia direzione, mentre io cercavo di scappare verso la porta dell’autobus, che era improvvisamente scomparsa. Le sue braccia si allungavano verso di me come se fossero di gomma, le sue unghie erano diventate lunghe e acuminate come gli artigli di un rapace. Mi raggiungeva, mi afferrava le braccia conficcando i suoi artigli nella carne e graffiava come se volesse farle a brandelli, ripetendo: è colpa tua, è colpa tua. Ma la cosa ancora più assurda, è che mentre il sangue caldo mi colava sulla pelle, anziché sentire dolore provavo una sensazione di inspiegabile leggerezza.
Quando avevo otto anni, il mio adorato Billy scappò di casa. Era un meticcio di appena due anni, con gli occhi neri piccoli e vispi e il pelo color cannella. Piansi per due giorni di fila, finché un vicino di casa agricoltore lo trovò a gironzolare nel suo campo e lo riportò da noi. Per tutto il tempo in cui il cane era sparito, mio fratello maggiore e il suo migliore amico con la faccia da topo mi ripetevano che era scappato perché si era stancato di me e dei miei giochi da femmina. Io sapevo che non era vero, Billy era felice quando tornavo da scuola e giocava con me ogni giorno, anche quando gli mettevo il fiocco rosa in testa e lo scambiavano per una femmina. Ero stata io a dargli il nome, l’avevo chiamato come il protagonista del mio film preferito: Billy Elliot. Quando arrabbiata nera urlai a mio fratello e al suo amico di andare a farsi fottere, loro fecero la spia ai miei genitori, che mi misero in punizione perché le bambine non devono dire le parolacce. Io non sapevo nemmeno il significato di quello che avevo detto, con ogni probabilità scimmiottato da qualche film, ma sapevo di essere stata trattata ingiustamente; ripensandoci, quella fu la prima volta in cui accarezzai il concetto – riformulato nella mia testa anni più tardi – che nel mondo, a partire dal mio piccolo e innocente universo di bambina, non ci si poteva fidare di nessuno.
Quando di anni ne avevo dodici, una sera faccia di topo mi disse che dovevo dargli un bacio come ricompensa per avermi permesso di andare a prendere il gelato con loro. Io rifiutai e lui mi afferrò per un braccio, con l’altra mano mi strinse forte il viso e incollò le sue labbra bavose alle mie con uno schiocco sonoro. Mio fratello vide la scena ma non fece nulla. Gli mollai un calcio sugli stinchi e scappai a casa. Quando lo raccontai ai miei genitori scoprii che anche quella volta ero in torto, perché hai visto cosa succede quando ti ostini a voler uscire con i ragazzi grandi.
Non raccontai loro più niente, nemmeno quando faccia di topo si fece più insistente e iniziò a infastidirmi sempre più spesso, ogni volta che veniva a casa per fare i compiti o giocare ai videogiochi con mio fratello. Un giorno ero particolarmente tesa per via di una pessima mattinata a scuola: prima avevo preso quattro nell’interrogazione d’inglese, poi durante l’ora di educazione fisica ero inciampata davanti a tutta la classe e infine avevo litigato con Giulia, la mia migliore amica. Quel giorno faccia di topo entrò in camera mia con una scusa e chiuse la porta a chiave.
«Ho qualcosa per te. Chiudi gli occhi».
Mi fece mettere le mani a conca e io ubbidii solo per levarmelo dai piedi. Sapevo che mi avrebbe fatto uno scherzo, tipo buttarci dentro un uovo crudo o qualche altra cosa schifosa, ma quel giorno fece qualcosa che andava oltre la mia immaginazione: tirò fuori il suo cazzo moscio dalle mutande e me lo appoggiò tra le mani.
«Toccalo» mi intimò, guardandomi dall’alto al basso con strafottenza.
Rimasi impietrita. Sentii la rabbia esplodere prepotente nelle viscere ed espandersi in tutto il corpo. Avrei voluto sputargli in faccia tutto il mio disprezzo e correre via, invece ingoiai il ribrezzo insieme alla saliva, puntai lo sguardo nei suoi occhi vacui e gli afferrai il membro con decisione, stringendolo forte fino a lasciargli impresso il segno delle unghie.
Da quel giorno diventò più cattivo. Iniziò a seguirmi ovunque andassi, a mettere in giro voci false sul mio conto, ad aizzare i miei compagni contro di me. «Devi farti perdonare» mi disse un giorno all’uscita da scuola. Io lo ignorai e mi incamminai verso casa; lui si accodò. Mi ero costruita uno scudo di ferro che mi permetteva di andare avanti senza essere abbattuta dai suoi colpi.
«Sai che non mi fermo finchè non ottengo quello che voglio» aggiunse sottovoce.
«E cosa vorresti da me, verme schifoso?» commentai a voce abbastanza alta da farmi sentire dai passanti. Lui si guardò attorno allarmato, poi mi prese per un braccio e mi trascinò in un angolo.
«Non urlare!» sibilò. «Facciamo così, esci con me una sera e te lo spiego.»
Quella richiesta mi lasciò spiazzata al pari di un pugno in faccia.
«Uscire con te? Ma cos’hai nel cervello?»
«È la prima volta che te lo chiedono? Non mi stupirei, visto il tuo carattere di merda.»
«Io e il mio carattere di merda stiamo benissimo così. Non ho intenzione di uscire con te.»
«Va bene, come vuoi, ma non dimentico quello che hai fatto. C’è solo un modo per farti perdonare.» Nel dirlo, mimò un gesto osceno con le mani.
«Sei tu che dovresti farti perdonare, non io.» Feci per andarmene, ma lui mi sbarrò la strada. Ad ogni mio rifiuto, tornava all’attacco con più ferocia, come una belva ferita.
«So che non hai amici, tranne quel cesso della tua compagna di banco, come si chiama…Giulia?»
Fece una pausa ad effetto per osservare la mia reazione.
«Fai quello che ti dico e lascerò in pace entrambe».
«Non ti avvicinare a lei» gli intimai.
« Ho come l’impressione che aprirà le gambe al primo che le chieda di uscire» e indicò sé stesso. In quel momento avrei voluto che lo scudo si materializzasse tra le mie mani e con esso una spada lucente con cui gli avrei volentieri trafitto lo stomaco. Quel pensiero mi fece rabbrividire; quando ero diventata così spietata? Spostò il braccio e mi lasciò passare, certo di aver vinto la battaglia, senza sapere che stavo già meditando la mia vendetta.
Avevo da poco compiuto quindici anni, qualcosa avevo già imparato dal libro di scienze e dalla televisione. Ero abbastanza forte per sopportare qualche minuto di umiliazione, in cambio di prove per denunciarlo alla polizia. Lui, neopatentato, aveva preso in prestito la macchina di suo nonno. Gli dissi di imboccare la strada in direzione del lago, da quelle parti c’era un posto dove andavo con Giulia quando volevamo nasconderci dal resto del mondo. Non avrei voluto portarlo lì e violare il nostro tempio segreto, ma se c’era un posto dove mi sentissi tranquilla e al sicuro era proprio quello. Parcheggiò davanti al casolare abbandonato che gli indicai, di fianco a una grossa quercia. Per l’occasione aveva pettinato i capelli all’indietro col gel e pareva si fosse spruzzato addosso una boccetta intera di profumo, nel tentativo di coprire la puzza di fumo e patatine fritte di cui era impregnata la macchina. Aveva un brufolo enorme sulla fronte che non riuscivo a smettere di guardare. Non ci furono convenevoli, né preliminari. Gli lasciai fare tutto quello che voleva, mentre io rimasi concentrata sul suo brufolo giallastro per non pensare al dolore e alla vergogna che mi scorrevano dentro e si insinuavano in ogni angolo del mio corpo, misto al sangue nelle vene, alla linfa vitale macchiata d’inchiostro indelebile, al pensiero che della quindicenne di poche ore prima era rimasta solo l’ombra. Quando finì, scese dalla macchina e accese una sigaretta. Si sedette ai piedi della quercia e mi invitò a fare lo stesso. Avrei preferito mangiare la terra piuttosto che sedermi di fianco a lui, ma decisi di assecondarlo. Poco dopo pensò bene di annunciarmi che doveva pisciare e senza nemmeno aspettare che mi allontanassi, abbassò la zip e inizio a farla contro l’albero. Mi allontanai, schifata, e raggiunsi un bellissimo cespuglio di rose selvatiche dietro la casa. Rimasi ad osservare quei fiori profumati ed eleganti, desiderando di potermi trasformare in uno di loro e dimenticare la mia vita da essere umano, finchè non sentii sbattere la portiera dell’auto e fui riportata alla realtà. Tornai alla macchina e feci per salire, ma lui si era chiuso dentro. Abbassò appena il finestrino, quel tanto che bastava per far arrivare la sua voce odiosa alle mie orecchie.
«Torna a piedi» sghignazzò, con una smorfia di scherno.
«Ma sei scemo?» esclamai, «saranno dieci chilometri da qui a casa mia.»
«Allora prendi l’autobus.»
«Oggi è domenica, non passa l’autobus.»
Mise in moto e mi chiuse il finestrino in faccia, ridendo. Si allontanò da me con una sgommata e il polverone che si alzò mi investì in pieno. Lo guardai allontanarsi, impotente, non prima di avergli lanciato appresso una grossa pietra che gli ammaccò la carrozzeria, insieme ad una buona dose di insulti.
Non potevo chiamare i miei genitori, né nessun altro. Mi incamminai verso casa, e lo maledissi ad ogni passo pregando che pagasse per tutto quello che aveva fatto. Quando arrivai era ora di cena, ma in casa non c’era nessuno. Poco male, non avevo né fame né voglia di vedere anima viva; feci solamente una doccia e andai a dormire.
Scoprii quello che era successo il giorno dopo, mentre facevo colazione prima di andare a scuola. I miei genitori entrarono in cucina col volto stanco e rabbuiato.
Mia madre iniziò a parlare di faccia di topo, accennò qualcosa riguardo un camion, una strada pericolosa, un segnale di precedenza, un incidente. Era morto sul colpo.
Quando mi svegliai dopo lo spaventoso sogno dell’autobus e notai i segni dei graffi sulle braccia, iniziai a preoccuparmi seriamente. Ero abituata alle stranezze: dopo la morte di faccia di topo avevo cominciato ad avvertire delle presenze attorno a me, a volte sembrava volessero parlarmi, altre volte osservavano soltanto. La psicologa era convinta che si trattasse di allucinazioni dovute al trauma subìto, alla violenza, al fatto che mi sentissi responsabile della sua morte, mentre io ero sopravvissuta per un caso puramente fortuito. Ma io non è che avessi subìto un trauma, insomma, avevo scelto consapevolmente di fare quello che avevo fatto. Lui poi non era stato violento; rozzo sicuramente, stronzo pure, ma non violento. E se alla fine si era schiantato addosso a un camion era colpa sua, non certo delle mie maledizioni, non avevo questo potere. O forse sì? No, impossibile. Io sapevo che quelle anime venivano da me in cerca di aiuto, di sostegno, di qualcuno con cui parlare per non commettere errori di cui si sarebbero pentite. Non sapevo da dove arrivassero né come avrei potuto aiutarle, ma sentivo che era mio compito farlo. Prima di allora non me ne ero mai preoccupata più di tanto, ma quella situazione era del tutto nuova. Non era mai successo che le anime entrassero nei miei sogni, e soprattutto, non era mai successo che mi lasciassero segni visibili sul corpo. Dovevo fare qualcosa, ma anche solo l’idea di doverlo fare mi faceva venire la nausea.
Iniziai cercando parole a caso su Google, senza un criterio preciso. Trovai siti e blog di tutti i generi, da quelli ultra religiosi ad altri vagamente inquietanti, dalle pagine New Age fino agli articoli scientifici scritti da fior fior di psicologi. Nulla che non avessi già sentito. Alla fine decisi di provare con la biblioteca dell’università, magari avrei trovato qualcosa di utile nella sezione di Filosofia. Da quando avevo iniziato le lezioni, due mesi prima, non ero ancora entrata in nessuna delle biblioteche dell’Ateneo. Quella dell’area umanistica era certamente molto grande, ma talmente fredda e impersonale da somigliare più a un magazzino che a un luogo di cultura. I volumi erano riposti all’interno di scaffali grigi a ridosso delle pareti, e al centro della stanza erano allineati i tavoli riservati agli studenti, attaccati gli uni agli altri senza nemmeno un divisorio per la privacy. Tutto l’ambiente era illuminato da una quantità industriale di lampade al neon che creavano un’atmosfera spettrale ma che dovevano certamente sopperire alla totale mancanza di finestre. Dopo aver ispezionato alcuni scaffali, presi un volume sulla filosofia del surrealismo e un paio di saggi sulla teoria e interpretazione dei sogni, poi mi accomodai il più lontano possibile dagli altri studenti.
Ero talmente concentrata nella lettura che non mi accorsi né del tempo che passava, né della ragazza che si era accomodata di fronte a me. Quando alzai gli occhi dal libro per bere e mi accorsi della sua presenza, per poco non mi andò l’acqua di traverso. Mi scrutava con la coda dell’occhio, mentre sistemava in continuazione i capelli corvini che le scendevano lisci fin sotto il mento. Le labbra rosse erano curvate in un sorriso appena accennato. Tentai di ignorarla, ma evidentemente ero meno discreta di lei nello squadrare le persone di nascosto, perché un attimo dopo si avvicinò ancora di più, come se l’avessi invitata a parlare.
«È difficile?» chiese sottovoce, indicando il libro con un cenno della testa.
«Come, scusa?» domandai spaesata.
«Non ho ancora preparato quell’esame, mi fa un po’ paura la filosofia.»
Dovette captare immediatamente il mio imbarazzo, così intervenne:
«Frequentiamo lo stesso corso, Lettere Moderne primo anno. Mi chiamo Alice.»
Mi porse la mano con decisione e io la strinsi appena. «Angelica» mi presentai. «Mi dispiace, non ricordo mai le facce». Non era una scusa; facevo davvero molta fatica a ricordare i lineamenti delle persone che incontravo, per me erano più che altro entità astratte all’interno di un macrocosmo indefinito. Forse era anche per questo che non avevo amici; mi teneva compagnia solo Leo, il gatto che le mie coinquiline avevano salvato dalla strada l’anno precedente.
«Non c’è problema, io non ricordo i nomi, perciò è molto probabile che la prossima volta ti chiamerò Mariangela o Angelina.»
«In effetti di cognome faccio Jolie» azzardai.
Lei scoppiò a ridere e intravidi il piercing che aveva sulla lingua.
Un ragazzo seduto a due banchi di distanza ci rivolse un’occhiataccia.
«Ti va di fare una pausa?» mi chiese lei.
Ero un po’ restia a dare subito confidenza ad una sconosciuta, ma l’aria rarefatta della biblioteca doveva avermi offuscato i sensi e mi convinsi ad accettare. Uscimmo all’esterno; il sole era basso all’orizzonte, nascosto dietro le nuvole. Parlammo del più e del meno, mentre passeggiavamo tra gli edifici del campus e il cielo iniziava a tingersi di rosa e arancione.
«Oh no! Che ore sono?» esclamai all’improvviso.
Alice guardò l’orologio che portava al polso.
«Quasi le sei. Perché?»
«Ho dimenticato il mio quaderno degli appunti!» urlai correndo verso la biblioteca.
Lei mi venne dietro. Arrivammo davanti all’aula alle 18:02 e trovammo la bibliotecaria con le chiavi in mano, intenta a chiudere la porta dietro di sé.
«Per favore aspetti un attimo ho dimenticato una cosa dentro» sbottai tutto d’un fiato.
«Mi dispiace, torni domani alle nove.»
Mi gettai verso la porta cercando di bloccarla.
«La prego, è importante!»
«Anche il mio tempo libero è importante» fece lei seccata.
«Ci metto trenta secondi, davvero.»
La donna non fece in tempo a rispondere che venne interrotta da uno straziante grido di dolore. Alice si era accasciata a terra, con le mani sulla pancia, in preda a spasmi e lamenti.
«Mi aiuti per favore, sono incinta!» strillò alla bibliotecaria.
Il cuore mi schizzò in gola e tentai di avvicinarmi, ma lei mi fece un cenno: indicava la porta ancora aperta dietro di me. All’improvviso, capii. Sgattaiolai all’interno facendomi luce con la torcia del telefono, mentre fuori continuava la sceneggiata, raggiunsi il banco dov’ero seduta e afferrai il quaderno con un movimento rapido. Venti secondi dopo ero già fuori. Alice mi vide, si ricompose, ringraziò la donna e si mise in piedi al mio fianco. La signora chiuse la porta e non ci degnò nemmeno di uno sguardo.
«Quindi sei un’attrice» osservai con ammirazione appena ci fummo allontanate.
«Nel tempo libero» rispose lei.
Misi il quaderno nello zaino e la ringraziai.
«Cosa c’è di così importante in questi appunti?»
In questi appunti c’è la mia vita, pensai. Le mie teorie sui sogni, le mie bozze di scrittura, le mie poesie, i miei pensieri. Ma non ero ancora pronta a condividere questi dettagli privati con qualcuno.
«Tranquilla, non devi dirmelo per forza» aggiunse lei.
La salutai e promisi di riconoscerla la prossima volta che ci saremmo viste. Lei mi rispose di salutare Brad Pitt da parte sua.
Erano passate tre settimane; io e Alice ci eravamo incontrate a lezione svariate volte e un paio di giorni avevamo addirittura pranzato insieme. Mi aveva invitata a casa sua il sabato successivo, avrebbe organizzato una cena con alcuni amici, una serata tranquilla per salutarci prima delle vacanze di Natale. Le avevo detto che ci avrei pensato, ma sapevo già che avrei inventato una scusa dell’ultimo minuto per declinare.
Nel frattempo, i sogni inquietanti non mi davano tregua; a volte mi inseguivano nel dormiveglia fino al riflesso dello specchio del bagno, li sentivo bisbigliare dentro l’armadio o dietro la porta della cucina. Trovai anche altri segni sul corpo, come un promemoria per ricordarmi che non stavo facendo abbastanza. In particolare, ricordo un sogno in cui mi trovai faccia a faccia con una presenza femminile dai capelli neri a caschetto e il piercing sulla lingua, che impugnava un grosso coltello con inciso un cuore spezzato a metà. Mentre lei mi inseguiva brandendo il coltello, ero inciampata e caduta di faccia sull’asfalto; al risveglio avevo un labbro spaccato e un grosso livido sul ginocchio destro. I libri non avevano aiutato più di tanto e la bibliotecaria mi guardava storto ogni volta che incrociavo il suo sguardo, quindi decisi presto di abbandonare quella pista. Presa dallo sconforto e dalla convinzione che la mia vita non sarebbe mai stata normale, decisi di fare una pazzia e accettare l’invito di Alice.
Non ero abituata a vestirmi elegante per uscire, il meglio che riuscii a fare fu sostituire i jeans con una gonna in similpelle, ai piedi i soliti anfibi neri. Indossai anche il mio maglioncino preferito, di un profondo color ottanio che mi stava sorprendentemente bene. I capelli cadevano disordinati sulla schiena, eppure quella sera mi sembrarono meno sciatti e banali del solito.
Comprai una bottiglia di vino da portare alla cena, non prima di essermi tormentata di dubbi esistenziali della serie: non so niente di vini, sicuramente rideranno di me perché sceglierò quello sbagliato e poi è troppo scontato, forse dovrei portare qualcos’altro.
Quando suonai il campanello mi aprì la porta un ragazzo. Rimasi immobile sul pianerottolo, convinta di aver sbagliato appartamento, quando Alice spuntò alle sue spalle. Indossava un vestito scarlatto lungo fino alle caviglie, con le maniche ampie e una profonda scollatura. Mi ricordava una fenice, fiera ed elegante, intenta ad aprire le ali e spiccare il volo; io invece ero un piccione in bilico sulla grondaia.
«Lui è Francesco, mio fratello gemello» sorrise invitandomi a entrare. In effetti, avevano gli stessi occhi grandi e sporgenti, che spiccavano sulla pelle diafana come pietre di onice sulla neve. Mi stupii di riuscire a ricordare certi dettagli del suo viso. Feci un sorriso di cortesia, entrai e gli porsi la bottiglia. Lui mi ringraziò lodando la mia scelta del vino e già mi stava simpatico.
La porta d’ingresso dava direttamente sul salotto, piccolo ma accogliente, adornato di decorazioni autunnali e luci natalizie. L’abbinamento poteva sembrare azzardato, ma nel complesso funzionava bene. Sul divano era seduto un altro ragazzo, aveva la pelle color caffelatte e una corona di riccioli lucidi e perfetti che gli incorniciava il viso. Si alzò e mi porse la mano.
«Amir» si presentò, «sono un amico di Francesco».
Ebbi un sussulto. Fratello e amico del fratello. Un orribile flashback mi attraversò la mente e mi sentii svenire.
«Stai bene?» mi chiese Alice.
Mi affrettai ad annuire per non farla preoccupare e presi posto sul divano accanto al ragazzo. Nel giro di dieci minuti mi resi conto che Amir non aveva nulla a che vedere con faccia di topo. Era timido e gentile; per tutto il tempo in cui parlammo continuò a guardarsi la punta delle scarpe. Era studente al Dams, ballerino e aspirante coreografo; il suo sogno era scrivere un musical. Quando mi disse che il suo film preferito era Billy Elliot diventammo praticamente migliori amici.
«Io sono negata per la danza» esordii, «però di Billy ho sempre ammirato l’entusiasmo e la capacità di seguire la sua strada nonostante i giudizi degli altri».
Amir sorrise annuendo impercettibilmente ed ebbi l’impressione che quella fosse stata la sua stessa esperienza, ma non chiesi nulla, era troppo presto per confidenze così personali.
Francesco si unì alla conversazione.
«Anche tu vai al Dams?» gli chiesi.
«No, io sono il meno intelligente della famiglia» scherzò, «mi sono sempre piaciute più le macchine dei libri». Si interruppe come se stesse rivivendo un ricordo, poi aggiunse «Anche i musical. Mi guardavano tutti come un alieno quando dicevo di amare entrambe le cose».
«Come vi siete conosciuti?» chiesi con sincera curiosità.
«All’uscita da un musical, nel parcheggio del teatro» rispose Amir. «La macchina mi aveva lasciato a piedi e Francesco l’ha fatta ripartire.»
Poco dopo arrivarono altri amici di Alice e Francesco e ordinammo pizza per tutti. La serata proseguì tranquilla e per la prima volta in vita mia non sentii l’esigenza di abbandonare la festa e rifugiarmi a casa sotto le coperte.
Quando però Amir si alzò e uscì in balcone, lo seguii. Avevo bisogno di silenzio.
Mi accucciai sulla sedia pieghevole accanto a lui e lo osservai mentre estraeva un sacchetto di plastica dalla borsa a tracolla e lo poggiava sul tavolino. Sentii un odore forte, pungente ma non fastidioso. Prese un foglietto di carta rettangolare molto sottile e ci mise sopra un po’ del contenuto del sacchetto. Poi posizionò un piccolo gommino su una delle estremità, passò la lingua sul bordo del foglietto e lo chiuse premendo bene con le dita. Infine si rivolse a me.
«Hai mai fumato?» mi chiese.
Feci di no con la testa. Lui appoggiò la sua piccola creazione tra le labbra e l’accese. Fece un respiro profondo, lo trattenne per qualche secondo e poi lasciò uscire una nuvola di fumo bianco dalle narici. Dopodiché l’afferrò fra le dita e fece il gesto di passarmela. La presi in mano per curiosità ma non ero sicura di voler provare. Tremavo. Un po’ per il freddo, un po’ per l’eccitazione. Poi, nel momento stesso in cui avvicinai la mano alle labbra, decisi di farlo. Era il gesto che mi dava sicurezza. Inspirai e subito sentii la gola bruciare e ributtai fuori il fumo dalla bocca, presumibilmente accompagnata da una smorfia imbarazzante sul viso. Lui non rise di me, disse che era così per tutti la prima volta. Bussò sul vetro della porta-finestra e fece cenno agli altri di raggiungerci. I gemelli si unirono a noi, gli altri ragazzi erano già andati via. Restammo fuori per un po’, in silenzio, passandoci la canna di mano in mano e osservando la luna sopra di noi. Più provavo e più mi piaceva; dopo qualche tiro riuscii anche a far uscire il fumo dal naso. Era come imparare a respirare, ma al contrario.
Quando iniziai a vedere i palazzi di fronte ondeggiare, pensai fosse il caso di rientrare e stendermi qualche minuto sul divano. Chiusi gli occhi. Quando li riaprii, non ero più nel salotto di Alice. Ero all’esterno, in un parco, ed era giorno. C’era un ragazzo seduto sul prato con gli occhi chiusi. Era uno di loro, lo sentivo. Spalancò gli occhi e mi guardò intensamente. E per la prima volta da quando erano iniziati questi sogni, mi sentii rivolgere la parola.
«Buongiorno, Mediatrice». Aveva un tono elegante e mellifluo, marcato da una leggera erre moscia. Lo guardai confusa.
«Mi chiamo Giacomo, ma preferisco Jack. Come Kerouac, sai.»
«E chi saresti?»
«Penso tu abbia già capito chi sono. Chi siamo tutti noi. Diciamo che sono qui in veste di portavoce.»
«Quindi mi dirai cosa fare per aiutarvi e non vedervi mai più?»
«Ma che scortese! Pensavo ti facessimo compagnia.»
«Non proprio.»
Alzai le maniche del maglioncino e gli mostrai i graffi.
«Ops, mi sa che qualcuno è più impaziente di andare via rispetto ad altri.»
«Andare dove?»
«Non posso dirtelo, non ancora.»
«E allora cosa sei venuto a fare?»
«Sono qui perché abbiamo bisogno di te, non sei pazza. Ti spiegherò meglio la prossima volta, però, adesso voglio dormire.»
«No, aspetta!»
Si stese sul prato e richiuse gli occhi, mentre io mi sentivo sballottare avanti e indietro come una barca in mezzo al mare. All’improvviso mi ritrovai di nuovo nel salotto, sdraiata sul divano di pelle marrone. Alice mi stava scuotendo per un braccio.
«Tutto okay? Sembravi in un altro mondo. Cosa stavi sognando?»
Mi misi faticosamente a sedere e lei si accomodò di fianco a me.
«Non posso dirtelo, mi prenderesti per pazza.»
«Io non prendo nessuno per pazzo.»
Si avvicinò al mio orecchio e sussurrò: «Sono una strega».
La guardai. I suoi occhi erano ancora più sporgenti del solito e le labbra ormai senza rossetto erano biancastre e screpolate. La fenice sembrava aver lasciato posto ad un uccellino appena nato.
«Non mi credi?» esclamò indispettita. Mi prese per un braccio e mi portò in un’altra stanza, che scoprii essere la sua camera da letto. Indicò un angolo in cui si trovava un altarino con candele, incensi e cristalli di ogni tipo, poi mi allungò un volume intitolato: Wicca. Il libro essenziale.
«Sono una strega» ripetè nel tentativo di rafforzare il concetto.
«Va bene, ti credo. Allora immagino di poterti raccontare delle anime che mi fanno visita nei sogni in cerca di aiuto.»
Strizzò gli occhi in due fessure, come se quello sguardo potesse penetrarmi dentro e rivelarle se fossi seria o se mi stessi prendendo gioco di lei.
«Puoi raccontarmi quello che vuoi» disse infine, mentre si spogliava per mettersi il pigiama.
«Dei sogni, delle anime, dei vivi e dei morti» proseguì.
Prese un pigiama pulito dal cassetto e me lo mise tra le mani.
«Però domani, adesso ho sonno. Puoi dormire qui se vuoi» aggiunse. E mi baciò sulle labbra.
Ero troppo stanca per riflettere sul significato di quel bacio o su come tornare a casa in quelle condizioni. Indossai il pigiama che mi aveva dato Alice e mi stesi nel letto accanto a lei. E mentre scivolavo nel mondo dei sogni, chiedendomi chi o cosa avrei trovato questa volta, pensai con una punta di sollievo che almeno non ero più sola.
L’autrice
M.L. L’amore per la scrittura mi accompagna da quando avevo 13 anni e scrivevo racconti ispirati ai miei libri preferiti, che rimanevano poi rigorosamente incompiuti e dimenticati nel cassetto. A scuola facevo temi chilometrici e le righe del foglio protocollo non bastavano mai. Durante l’adolescenza si può dire che io abbia avuto più corrispondenze epistolari che conversazioni faccia a faccia con le persone. Oggi ho qualche manciata di anni in più, ma la scrittura rimane ancora il modo che preferisco per esprimermi.
Nei miei sogni, sono una scrittrice a tempo pieno e vivo in una casetta sul lago con un gatto, due cani e tre galline. Nella realtà, mi occupo di marketing e vivo in un appartamento in città, in compagnia di una perenne insicurezza che spesso mi impedisce di terminare quello che scrivo e di farlo leggere a qualcuno oltre al mio fidanzato. Ma ci sto lavorando su.
IG: @writercore
L’editor
Valeria Banchero, autrice teatrale, studio per diventare editor freelance. Difficile, troppo difficile riemergere dalla lettura dei miei libri. Mamma di due nani pestiferi, o forse la pestifera sono io.
Le storie mi affascinano da quando ho imparato a leggere. Senza un libro in borsa mi sento persa, scrivo da quando ho memoria. Dal teatro ho imparato l’essenza del personaggio, crearlo sulle pagine e portarlo, vivo, in scena.Amo lavorare con gli scrittori perché mi permettono di entrare in punta di piedi nel loro mondo.
IG: sipari_di_parole
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