La buona scrittura si suppone che evochi sensazioni nel lettore: non il fatto che stia piovendo, ma che ci stia piovendo addosso.
Renato di Lorenzo
Scrivere per raccontare. L’esperienza di scrittura in Horsa.
Quando pensiamo alla scrittura, all’atto dello scrivere, l’immagine che ci colpisce di più rimanda ancora alla visione romantica di passioni e umori dei grandi scrittori del tempo “che è passato”. Un’immagine assolutamente meravigliosa ma credo, ad oggi, poco veritiera.
Chi scrive – e qui ne parlo spesso – sa quanto sia importante lo studio e il confronto. Ma la scrittura non è un’area riservata o sacrale per pochi eletti: è un mestiere, a volte un’arte.
Quest’estate Horsa Group (azienda IT internazionale) ha organizzato un corso di scrittura creativa della durata di quattro mesi nel quale sono stati coinvolti i dipendenti dell’azienda per la stesura di un racconto che avesse come tema la pandemia e il periodo di lockdown in smartworking. Le lezioni, tenute dallo scrittore Andrea Fiorenza, hanno affrontato i temi della scrittura narrativa del racconto a partire dal sentimento che chi scrive deve saper trasmettere fino alla conclusione di una micro-trama.
Ho avuto il piacere di partecipare al progetto come editor dei racconti prodotti dai novelli scrittori. Un’esperienza, anche la mia, diversa da ciò a cui sono abituata: un confronto su emozioni talmente vicine a quella che è stata la quotidianità di tutti da farmi sentire, almeno un po’, parte della loro storia.
I partecipanti al progetto sono stati 140 e 21 i racconti che hanno trovato casa presso l’editore Fernandel nella raccolta dal titolo omonimo “Tinello Working”.
Oggi parliamo con tre di loro.
Martina Grisolia
Perché hai deciso di partecipare al progetto Horsa?
Ho deciso di prendere parte al progetto “Tinello Working” perché sin da bambina ho sempre nutrito una grande passione per la scrittura e le arti in generale, mi è sembrata un’ottima occasione per mettermi alla prova!
Parlami del tuo racconto in tre frasi.
Il mio racconto in tre frasi, domanda difficile perché penso sia sempre complesso racchiudere pensieri e storie in poche frasi, ma ci provo.
“The Great Gigi” parla di un uomo stanco della routine quotidiana che, in un giorno di completa normalità, si addormenta leggendo uno dei suoi romanzi preferiti e immagina di essere catapultato con sua moglie in un grande e scintillante ballo degli anni Venti, che per un po’ lo aliena da una quotidianità dettata dal Covid-19.
Come hai sviluppato l’idea della bolla? Era il sentimento che percepivi durante i mesi di chiusura?
Penso che tutti noi, chi più chi meno, ci siamo sentiti “chiusi” e costretti in quattro mura per più di un anno, e spesso il sentimento continua ad essere lo stesso. Di conseguenza sì, posso dire con certezza di essermi sentita anche io in una bolla come Luigi, a volte anche distorcendo la realtà e non rendendomi conto di ciò che succedeva al di fuori di casa mia.
Il titolo del tuo racconto (The Great Gigi) ricorda molto Il grande Gatsby. Ti sei lasciata ispirare? E in che modo?
“The Great Gatsby” è un romanzo che ho adorato e letto per la prima volta durante gli anni universitari ed è stato relativamente semplice collegarlo al personaggio che ho immaginato e a cui ho deciso di dar vita, facendone emergere lati fragili e più “colorati”, facendogli ritrovare la magia insieme alla sua Daisy in un ballo immaginario ma tangibile.
Vincenzo Aliani
Che cosa ti ha lasciato questa esperienza? Perché hai dato fiducia al corso aziendale?
Ho sempre amato scrivere. È una passione che cercavo di portare avanti nel tempo libero, molto spesso faticando. Ci sono stati periodi in cui ho scritto pochissimo o nulla. Avevo bisogno quindi di qualcosa che incoraggiasse la mia passione. Non appena ho visto la mail con la presentazione del corso non ci ho pensato due volte, era un’occasione che non potevo farmi sfuggire. Questa esperienza mi ha sicuramente arricchito su più fronti. Ho acquisito un metodo utile a strutturare un racconto e sviluppare personaggi, ho imparato ad approcciarmi alla scrittura in modo diverso osservando non solo me stesso, ma anche gli altri, i loro movimenti, le loro reazioni e ricavarne qualcosa. Poi ho imparato a mettermi in discussione. Ho inviato il mio racconto a più persone, soprattutto a chi avrebbe potuto essere più severo, per avere più punti di vista.
Parlami del tuo racconto in tre frasi.
Un uomo si ritrova in un labirinto tetro e sconosciuto.
Mentre percorre il labirinto ha vaghi ricordi del suo passato e della sua amata.
L’uomo indossa vari volti, a cui sono collegati dei ricordi, non riconoscendosi in nessuno di questi.
Il tuo racconto è un caleidoscopio di scene, come una Matrioska che diventa prigione per il tuo protagonista. Come hai strutturato un’idea così complessa? E quanto di quello che hai scritto è scaturito dalla situazione di chiusura che abbiamo vissuto nel 2020?
La pandemia ci ha chiusi in casa, relegati in quattro mura. Io credo che l’esterno sia confronto con l’altro e il confronto aiuta a definire sé stessi. Quando questo spazio viene a mancare, ecco che l’altro diventi tu e il confronto è totalmente solipsistico. Il labirinto è il topos della mente, un luogo complesso, intricato e pieno di insidie. Durante il lockdown mi sono accorto di aver pensato molto a me stesso proprio perché l’esterno non c’era. Mi rendevo conto di ricordare cose che credevo di aver sepolto e ogni ricordo rimandava ad un altro. Ogni volta che ricordavo ero più cosciente di me e avevo qualche elemento in più per conoscermi. Mi stavo osservando e credo che ognuno di noi l’abbia fatto. Il viaggio è pericoloso, ma utile a conoscere sé stessi e a capire cosa può essere davvero importante. Fortunatamente però io non ero solo, ma ho parlato con gente che ha sofferto di una solitudine profonda e il loro viaggio interiore è stato molto più abissale e magnetico. È anche la loro esperienza che mi ha ispirato.
L’immagine della maschera di carne che il protagonista del tuo racconto mostra più volte mi ha molto impressionata. La metafora è quella di dover indossare una maschera per ogni occasione di vita? L’interpretazione potrebbe anche essere quella di possedere e vivere, ognuno, effettivamente più maschere?
La maschera rappresenta il tentativo di ogni essere umano di nascondere le proprie fragilità, i propri demoni. Questo perché dobbiamo sempre mostrarci pronti e all’altezza, in grado di adattarci a determinati contesti. Credo però che ogni volta che tentiamo di rimuovere le nostre fragilità rimuoviamo noi stessi. Noi siamo soprattutto i nostri limiti, perché definiscono i nostri contorni e ci danno una forma che è unica, del tutto diversa dalle altre. L’unicità ci imbarazza e la maschera ci rende sicuri, invincibili e soprattutto ci evita l’arduo compito di comprendere le nostre debolezze e accettarle finché un giorno ci rendiamo conto che le maschere sono troppe e ci hanno inghiottito.
Francesca Bottega
Cosa provi a vedere il tuo racconto pubblicato su un libro?
Emozione? È solo una l’emozione che provo? Me lo sono chiesta più volte, e sì, credo siano tante emozioni, tutte insieme, sia chiamano Gioia di esserci riuscita, a raccontarmi, e Speranza che qualcuno, se mi leggerà, magari potrà apprezzare qualche mio spunto di riflessione. Si chiamano Rivincita, perché era il mio “ex lui” che mi lasciò dicendo che doveva nutrirsi del mondo per pubblicare un romanzo, che non ha ancora pubblicato e tanto meno scritto; si chiamano Soddisfazione, sì, e anche Paura perché del giudizio si ha anche sempre un po’ paura, almeno io ce l’ho. Del progetto c’era già un file che ho letto e riletto ma l’emozione di sfogliare quelle meravigliose pagine gialline dal profumo inconfondibile del libro stampato, di poterci mettere un segnalino a pagina 75 e di dirmi “là, su questo vero libro stampato, c’è un pezzo di te”, è una cosa grande, più di quanto credessi, a cui non so dare un nome.
Parlami del tuo racconto in tre frasi.
Mi piace da sempre giocare a immedesimarmi nei pensieri altrui, ecco, il mio racconto è solo un insieme di pensieri di una persona con una vita come tante. Pensieri di tarda notte o che arrivavano all’alba di ogni nuovo giorno durante un periodo in cui si era costretti a starci a lungo insieme ai nostri di pensieri. Più che un racconto è forse un po’ una lunga poesia perché per me la vita dev’essere piena di poesia, nonostante tutto, se non c’è, la cerco e la trovo quasi sempre (… non c’era scritto quando dovessero essere lunghe le tre frasi 😊)
Il titolo del tuo racconto è un gioco di parole (Look Down) che suggerisce le sensazioni vissute dalla protagonista. Quanto del “guardare dentro e nel profondo” di noi stessi, durante la chiusura, ha influito nella stesura del tuo racconto?
Come dicevo prima certo in quel periodo di chiusura arrestare i pensieri negativi non era sempre semplice, non lo è mai in realtà. La quotidianità e gli impegni della vita però offrono meno momenti tutti per sé; io ho goduto della chiusura, del lockdown, perché è arrivato in un periodo della mia vita in cui avevo proprio bisogno di fermarmi e di riflettere su chi ero diventata e su dove volessi provare ad andare.
Il tema della speranza è anch’esso abbastanza preponderante (Vedrai, vedrai, vedrai che cambierà…): raccontarsi attraverso la scrittura pescando sensazioni del periodo di lockdown ti ha fatto cambiare idea su qualcosa? Hai dovuto, insomma, rielaborare dei pensieri passati?
Il periodo del lockdown è arrivato per me esattamente un anno dopo la frattura del mio matrimonio, è capitato in un momento in cui ero stanca di fare mille cose per non pensare a quello che a me sembrava solo un fallimento. L’aver scoperto che era stato soprattutto tradito un progetto di vita così grande, come quello di costruire una famiglia fondata sull’amore che avrebbe dovuto essere capace di includere due figli adottivi arrivati in età prescolare e, in quel momento, adolescenti, mi aveva portata a reagire per un anno concentrandomi soprattutto su me stessa, sul far nascere nuove relazioni sociali, sul viaggiare, sul riprendere a fare arte, tante forse troppe cose tutte insieme. Scrivere quei pensieri e ricucirli poi per farne un racconto è stato come trovarne un senso e riuscire ad incasellarli uno dopo l’altro ha fatto in modo che diventassero una specie di manuale di vita, in primis per me stessa. Le speranze ho capito allora che sono solo i miei sogni, di cui mi nutro, ne ho armadi e cassetti rigonfi, non potrei sopravvivere senza perché poi, per me, le esperienze sono solo sogni realizzati, speranze divenute semplicemente vita.

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Horsa Group è una importante realtà ICT italiana che progetta, implementa e governa soluzioni IT destinate alle imprese.