I Racconti della Bussola è un progetto che dà esperienza a editor e scrittori.

L’Assiolo
di Bruto
editing di Ilaria Annicchiarico
Stavo dormendo da alcune ore e un rumore secco s’insinuò nel sonno.
Mi girai e rigirai nel letto, imposi ai miei occhi di richiudersi, ma l’idea di non conoscere l’origine di quel rumore mi teneva sveglio.
Allungai la mano oltre il lato freddo del letto e accesi la luce.
Rimasi in ascolto, smisi persino di respirare, pur di non distrarmi.
In apnea lo sentii di nuovo: era a metà strada fra un fischio e un sussulto. Mi affacciai alla finestra e alla luce piatta dei lampioni non scorsi nulla che potesse suggerirmi l’origine di quel cigolio. Aspettai finché non lo sentii ancora una volta. Era una notte senza luna e senza stelle, echi di entropia spingevano le nuvole opache e giallastre.
Mi venne in mente che mancavo da un paio di settimane al cimitero e che avrei dovuto portare una pianta nuova.
Il cigolio interruppe di nuovo i miei pensieri.
Il sonno era ormai del tutto passato ed ero più che mai deciso a risolvere l’enigma.
Recuperai il paio di scarpe più vicino e indossai un cappotto sopra al pigiama. Sceso in cortile, un altro rumore mi accolse, più tenue, ritmico e controllato, come di due involucri vuoti che s’incontrano. Il ticchettio mi condusse verso il giardino di Franco e Maria, confinante con il mio. Aguzzai la vista: Franco era su una scaletta, vicino a un albero, intento a picchiare il tronco con un bastone. Mi vide, si fermò e mi salutò. Fino a un paio di anni prima eravamo buoni amici. Finché Silvia era viva, passavamo molto tempo assieme: quando ci eravamo trasferiti, l’idea di legare con Franco e Maria era stata sua. Ci aiutavamo nei lavori domestici, le nostre mogli cucinavano assieme e passavamo ore a parlare dopo il lavoro.
Dopo il funerale mi ero trasferito per un mese da mia sorella. Al ritorno trovai Franco intento a tosare il prato, lo salutai velocemente e mi rifugiai in casa. Così, smettemmo di parlare, e lui, nei mesi successivi, smise di provarci.
«Franco, che ci fai sveglio a quest’ora?»
«Picchio il limone, l’anno scorso non ha dato frutti. Per far nascere nuovi boccioli bisogna picchiarlo la notte di San Valentino.»
«Non ci avevo pensato.»
«A cosa?»
«Che fosse San Valentino.»
Si girò verso di me, ma non riuscii a vederlo in faccia: indossava una di quelle torce che si tengono con un elastico al centro della fronte.
Era un ciclope che giganteggiava davanti a me.
Scese dalla scaletta, spense la luce e potei guardarlo meglio: sembrava più vecchio e magro di quanto ricordassi.
«Stai seguendo il campionato?» Mi chiese.
«Non più di tanto.»
«Siamo sotto di tredici punti, ma abbiamo ancora qualche speranza di vincere.» Si accese una sigaretta. «Qualche sabato guardiamo una partita assieme?»
«Sì, sarebbe bello.»
Mi guardai dall’esterno: mi sentivo strano a riallacciare i rapporti con Franco in piena notte, mentre praticava una strana forma di giardinaggio. Mi dissi che quella sarebbe stata una notte da ricordare.
«I limoni crescono sui rami nati almeno un anno prima, ma purtroppo questi sono troppo pesanti e devo sfrondarli.»
«E non puoi semplicemente potarlo?»
«Il limone è una pianta resistente, è vero, ma estremamente debole in alcuni casi: se i tagli fossero eccessivi, lo ucciderebbero.»
Realizzai cosa intendesse e notai la comprensione nei suoi occhi; un ronzio improvviso mi fece tremare le ginocchia, in pochi secondi un rumore bianco mi avvolse. Non ero più in quel giardino, ma nel bagno, con le piastrelle schizzate di sangue e l’acqua, tutta quell’acqua che strabordava fuori dalla vasca. E Silvia stesa al centro della vasca. L’ultimo pensiero che mi attraversò, fu che mi sembrò indifesa.
«Scusami.» Buttò la sigaretta a terra e la schiacciò. «Non era mia intenzione.»
Mi ripresi dai miei pensieri e tornai davanti a Franco, provai a parlargli, ma la lingua era un pallone sgonfio. Pur di non ricadere nel baratro, mi appigliai a ricordi felici: l’anno in cui ci furono così tanti limoni, che per smaltirli Maria e Silvia insistettero per farne del limoncello. Decine di barattoli pieni di bucce di limone sospese nell’alcool, ci fecero compagnia per due mesi. Le ultime bottiglie le avevo bevute da solo, erano calde e dolciastre.
«Tranquillo, non tutte le volte che si parla di tagli ci penso.» Mentii.
Ci chiudemmo in un silenzio reciproco, però il motivo per cui mi trovavo lì, ricomparve, rompendolo.
«L’hai sentito?»
«Cosa?»
«Quello strano cicalio.»
«Ah, quello.» – Mi sorrise: una mezzaluna di denti gli comparve in faccia. Quello è un assiolo. Ha fatto il nido sopra uno di questi alberi, deve essere un maschio che chiama la femmina per convincerla a entrare.»
«Cos’è un assiolo?»
«Una specie di civetta, ma più piccola.»
Alzai la testa, provai a vederlo, ma si nascondeva tra le ombre. M’immaginai la famiglia di uccelli pronta a formarsi sopra la mia testa. Immaginai le uova schiudersi, i pulcini spiccare il primo volo e poi abbandonare il nido.
«E perché fa questo verso?»
«È da solo, ha trovato un nido adatto e sta cercando di convincere la femmina a entrarci.»
«Cerca compagnia.»
«Sì, anche gli uccelli soffrono la solitudine.»
Dopo la morte di Silvia, cominciai ad avere paura del silenzio. Imparai a tenermi occupato, a non farmi trascinare dal mutismo della casa vuota, ma la notte, prima di chiudere gli occhi e rassegnarsi al sonno, ti ritrovava solo per ricordarti tutti gli errori a cui avresti potuto rimediare. L’assiolo sopra la mia testa cantava per uscire dalla solitudine, lo invidiavo perché io non potevo fare altro che starlo ad ascoltare.
«Vieni, ti faccio vedere una cosa.» Franco mi toccò un braccio e mi riscosse.
Scomparve nel buio alle sue spalle. Realizzai che sarebbe stato peggio se non l’avessi seguito. Attraversai la siepe che divideva le nostre proprietà e mi sorpresi di quanto crescesse in fretta.
Lo ritrovai al centro del giardino con una torcia in mano e il raggio puntato verso la chioma di un albero dal tronco contorto.
«Lo riconosci?»
«Sì, lo piantammo assieme, il capriolo.»
«No.» Rise. «Corniolo. Se ti ricordi, fu Silvia a insistere per piantarlo: le piaceva il fatto che spuntassero prima i fiori e poi le foglie.»
«No, non ricordo.» Mi avvicinai ai grappoli di fiorellini gialli e li riconobbi. «Ma quindi sei tu che li porti a Silvia?»
Annuì.
«Sai, non manca solo a te… Io mi distraggo col giardinaggio, tu che fai?»
Mi guardai attorno: il giardino era diverso da come lo ricordavo, meno spoglio.
«Sì, ho fatto delle modifiche.» Notò che stavo recuperando i pezzi che mi ero perso.
«Non me ne ero accorto.»
«Come avresti potuto?»
Annuii. Mi sentivo la torcia addosso.
«Forse è il caso che torni a dormire.»
«Va bene.» Mi guardò come se volesse ricordarsi per sempre di me. «Picchio ancora un po’ il limone e poi vado.»
Franco si sistemò i capelli, indossò di nuovo la torcia, l’accese e mi salutò.
«Mi ha fatto piacere rivederti, dovremmo rifarlo.»
«Magari a un orario in cui possiamo vederci bene.»
Franco era più alto di me, col corpo consumato dal lavoro fisico, coi radi capelli giallo burro. Di colpo realizzai quanto mi mancava la sua risata e mi dissi che avrei dovuto rimediare agli anni di assenza. Ma poi non lo feci.
Rientrato in casa, mi tolsi cappotto e scarpe. Mi facevano male i piedi. Steso a letto, controllai la sveglia sul comodino: un paio d’ore di sonno avrei potuto farmele.
Chiusi gli occhi e l’assiolo si fece sentire di nuovo, sorrisi. Riaprii gli occhi e cercai la foto di Silvia.
«Ti saresti divertita.» All’epoca ancora ci parlavo.
Ripensai alla calma con la quale avevo affrontato la serata, sentivo il cuore battermi e la sveglia ticchettare. Chiusi di nuovo gli occhi, provai ad afferrare gli ultimi pensieri prima che venissero risucchiati e, finalmente, mi addormentai.
L’autore
Ciao, mi chiamo Bruto e sono nato nel 1985 a Napoli. I miei genitori sono amanti degli studi classici e umanistici, da cui deriva il mio nome. Immaginate come possa chiamarsi mia sorella. Dopo due anni infruttuosi di ginnasio mi iscrissi all’alberghiero. Col diploma in tasca mi trasferii a Milano dove cominciai a lavorare per un service di catering, ma le cose non andarono bene (colpevole anche una brutta malattia) e tornai a Napoli.
Quando mi ripresi, decisi di aprire un locale a metà fra un bar e una libreria, gli aperilibri andavano forte. Ma dopo otto anni, la pandemia mi ha costretto a chiudere. Sono tornato a casa di mia madre, complici i tanti libri, ho ripreso a leggere come facevo alle superiori e provo scrivere qualcosa.
L’editor
Ilaria Annicchiarico, classe 1996, da quando ha imparato a leggere, una parte di lei è sempre rimasta sospesa tra i libri, a partire da cui prova a interpretare la realtà. Ama analizzare e cercare connessioni dentro e fuori dai libri, aspirante editor col sogno da sempre di scriverne uno.
FB: Ilaria Annicchiarico
IG: @ilariannicchiarico
